i 150 anni dell'Unità d'Italia





I 150 anni dell'Unità d'Italia e la dinamica istituzionale italiana tra società civile e classe dirigente
di
Fulco Lanchester**

Sommario: 1-Una celebrazione difficile – 1.1-Le origini non controverse di una festa nazionale-1.2-Il “caso” di una ricorrenza divenuta problematica-1.3- Dal “Viva V.E.R.D.I.” ai problemi di bilancio- 2-La molteplicità di memorie e la carenza di condivisione delle stesse-3-L’esperienza pre-unitaria-4-L’egemonia moderata e l’Unità nazionale –5-I primi cinquanta anni di vicenda unitaria e l’indebolimento progressivo dello Stato liberale oligarchico -5.1-1-Il periodo della Destra storica:1861-1876-5.2—La Sinistra ,il trasformismo e le opzioni autoritarie:1876-1899-6-Il primo cinquantenario tra espansione interna ed esterna-7-il fascismo tra continuità e nuovi riti- 9-Il centenario-10- Le contraddizioni odierne-11Conclusioni.

1-Una celebrazione difficile – 1.1-Le origini non controverse di una festa nazionale- Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II promulgò la legge 4671 del Regno di Sardegna con cui assumeva per sé e per i successori il titolo di Re d'Italia . Il successivo 21 aprile, con il primo atto legislativo del nuovo Regno, si provvide, invece, a pubblicizzare la nuova formula di intitolazione degli atti normativi “per grazia di Dio e volontà della nazione”, che certificava la natura del compromesso unitario fondato sullo Statuto Albertino, concesso dal Sovrano, ma oramai aperto all'innovazione incrementale sulla base della rappresentanza parlamentare . Il 5 maggio di quello stesso anno venne promulgata la legge istitutiva della Festa nazionale per l’Unità d’Italia e lo Statuto del Regno , che si riallacciava alla precedente legge n.1187-1851 del Regno Sardo .

1.2-Il “caso” di una ricorrenza divenuta problematica – La celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia ha confermato, proprio in questi giorni ed in maniera palese, come il recupero di una simile ricorrenza sia altamente problematico.
Partiamo dalle origini recenti della questione, per poi risalire a quelle più risalenti, che spiegano le ragioni delle tensioni e delle ambiguità. Nel 2007 il Governo di Romano Prodi, in previsione dell’anniversario in questione, istituì il Comitato interministeriale per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia , presieduto dal Ministro dei Beni culturali e vice-presidente del Consiglio dei Ministri Francesco Rutelli, nominando anche un Comitato dei Garanti, presieduto prima dall’ex-Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi – in seguito alle dimissioni dello stesso- dal Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Giuliano Amato.
L’esito delle elezioni del 2008 e la formazione del IV Governo Berlusconi aveva obbiettivamente rallentato l’attività del Comitato e dell’Unità di missione,deputata alla preparazione delle celebrazioni ,che con ordinanza PCM n. 3772 del 19 maggio 2009 si era trasformata in Unità tecnica di missione operante presso il Segretariato generale della PCM.
Venerdì 28 gennaio 2011, sulla base del terzo comma dell’art. 7 bis, aggiunto in sede di conversione del decreto legge 30 aprile 2010,n.64 sulla Fondazioni liriche , il Consiglio dei ministri aveva finalmente annunciato : che il 17 marzo sarebbe stato, solo per il 2011, festa nazionale e che scuole ed uffici sarebbero rimasti chiusi ( “il messaggero”,28 Gennaio 2011); che durante la notte tra il 16 e il 17 le città sarebbero state aperte alla notte tricolore; che in quest'occasione in tutt'Italia sarebbe stato celebrato alle ore 07,00 il rito dell'alzabandiera; che il Capo dello Stato avrebbe parlato al Parlamento riunito in seduta comune e si sarebbe recato al Pantheon a rendere omaggio alla tomba del primo Re d'Italia; che, infine, il 2 giugno sarebbe stata , come ogni anno ma in maniera più solenne , celebrata la festa della Repubblica.
A questo punto è iniziata una significativa (ma non nuova) controversia in argomento , che ha fatto parlare di senso di debole appartenenza (“Corriere della sera” ,8 febbraio 2011) per quanto riguarda il sentimento di identità nazionale . In primo luogo ci si è accorti che, nonostante il citato art. 7 bis avesse dichiarato il 17 marzo festa nazionale, dal testo della legge di conversione era stato fatto sparire un esplicito richiamo alla L. 27 maggio 1949, n. 260, che ne avrebbe assicurato l’efficacia, facendolo così derubricare a solennità civile ; che ciò sarebbe accaduto a causa di una richiesta fondata su motivazioni di bilancio del sottosegretario all’Economia e finanze ( Giuseppe Vegas) e che di questo se ne sarebbero accorti in ritardo gli uffici della Camera dei deputati . Di qui la ripresa di un contenzioso che era rimasto formalmente coperto ( ma latente) nel momento della discussione del già citato e controverso atto normativo di base dedicato alle Fondazioni liriche e che nelle ultime settimane si è gonfiato oltre ogni misura, divenendo esemplare dello stato di scollamento in cui ci si appresta a commemorare l’evento fondativo dell’ordinamento statuale italiano.

1.3-Dal “Viva V.E.R.D.I.” ai problemi di bilancio –Una leggenda storica non confermata racconta che, durante gli anni dell’occupazione asburgica , sui muri di Milano sarebbero apparse scritte inneggianti a Vittorio Emanuele Re d’Italia sulla base dell’acronimo del cognome del celebre compositore Giuseppe Verdi. E’ in proposito singolare che proprio la Legge sulle fondazioni liriche abbia dato stura al grido alternativo “Viva i Verdi”, indicando la necessità di lavorare , rispettando le esigenze di copertura finanziaria di cui al quarto comma dell’art. 81 Cost..
In questa linea il presidente della Confindustria Marcegaglia ha, infatti, sostenuto che il 17 marzo si farebbe meglio a commemorare l'Unità d’Italia lavorando; Giuliano Amato, presidente del Comitato per le celebrazioni dell'evento unitario ed ex presidente del Consiglio , si è detto d'accordo in un articolo sul Sole 24 ore(6 febbraio 2011); il leghista Roberto Calderoli, ministro per la semplificazione, ha espresso un parere conforme, mentre i principali sindacati si sono nuovamente divisi anche su questo argomento, dopo aver battagliato ancora recentemente sui temi dei contratti, della rappresentatività e della riconversione dello Stato sociale.
Nel corso di un successivo Consiglio dei ministri (9 febbraio) il ministro della Pubblica istruzione Maria Stella Gelmini(Popolo della Libertà proveniente da Forza Italia) ha fatto sapere di essere sfavorevole alla chiusura delle scuole per la data indicata , mentre il leader della Lega Nord e ministro per le riforme istituzionali Umberto Bossi ha dichiarato che la “festa sarà percepita in modo diverso a seconda dei luoghi”(eufemismo per dire che al Nord non verrà celebrata), contrapponendosi al ministro della Gioventù Giorgia Meloni e a quello della Difesa Ignazio La Russa ( entrambi PdL di provenienza AN). A complicare la situazione, in un'area di confine estremamente sensibile ai dati simbolici, il presidente della provincia di Bolzano Durwalder ( SVP ) ha dichiarato che non celebrerà alcunché, perché parte di “una minoranza austriaca”, mentre lo stesso partito di raccolta della popolazione altoatesina di lingua tedesca ha provveduto trattare i voti dei propri parlamentari in cambio dello spostamento o della cancellazione di alcuni simboli nazionalisti italiani in Alto Adige(v. “La Stampa” 7 febbraio 2011). Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha risposto piccato a Durwalder che il presidente della provincia di Bolzano rappresenta anche la minoranza italiana (“La Repubblica”,12 febbraio 2011), mentre Calderoli- ripreso da La Russa sul federalismo – ha sostenuto che il provvedimento sarebbe incostituzionale perché – appunto- privo della copertura finanziaria ex art. 81 Cost..
Venerdì 18 febbraio il Consiglio dei ministri ha,finalmente, approvato un decreto legge, su proposta del Presidente del Consiglio , che “assicura la dovuta solennità e la massima partecipazione dei cittadini alle celebrazioni del 17 marzo 2011, già dichiarato festa nazionale, confermando che la giornata sarà festiva a tutti gli effetti previsti dalla legge”.
Come aveva lasciato trapelare già nei giorni scorsi il Ministro della difesa La Russa, solo per quest’anno “ troveranno applicazione gli effetti economici e gli istituti giuridici e contrattuali previsti per la festività soppressa del 4 novembre (che solo per quest’anno non esplica i predetti effetti) così da compensarne gli oneri”.
La delibera è stata approvata con l’astensione di Bossi e Calderoli e con l’assenza di Maroni, mentre alcuni rappresentati del PDL (Gelmini e Sacconi) hanno approvato il provvedimento, seppur obtorto collo. Questo è stato, infatti, considerato da Calderoni una vera e propria follia dal punto di vista economico e incostituzionale da quello giuridico per mancanza di copertura. D’altro il Decreto legge in oggetto non soltanto ha evitato l’imbarazzo di un voto parlamentare sulla mozione Franceschini, prevista dopo il cosiddetto “decreto Milleproroghe” , ma soprattutto sarà fatto decadere “a celebrazione avvenuta”, facendo in modo di neutralizzare i dissensi interni alla maggioranza e la necessità di ricorrere all’aiuto dell’opposizione.
Sono questi solo alcuni scampoli della polemica( non ancora conclusa) sul terzo cinquantenario dell'Unità nazionale italiana (su cui è intervenuto anche in maniera desolata l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ,v. “Corriere della sera”,10 febbraio 2011), che hanno riportato in auge la problematica di Ernest Renan relativa alla volontà dello stare insieme ed ai ricordi che la giustificano.
Ma non solo : sono venute alla luce anche tutte le contraddittorie stranezze di una commemorazione che una tantum provvede a rispolverare le radici monarchiche dell’ordinamento (ma ricordo che lo stesso Statuto veniva festeggiato la prima domenica di giugno di ogni anno soprattutto nelle caserme e nelle scuole ), perché Repubblica e Resistenza, eventi fondanti per l’attuale regime, non paiono più sufficienti (o come ha dichiarato per il 25 aprile l’esponente della Lega Nord Borghezio , di parte), mentre all’interno della comunità politica, soprattutto parti del ceto politico e della classe dirigente stanno divenendo sempre più centrifughi e pericolosi per la coesione sociale e della comunità politica.
La peculiarità della situazione è confermata dal fatto che prima si è dimenticato che già esiste la festa del 4 novembre (Anniversario della vittoria della prima guerra mondiale, divenuta successivamente Festa delle Forze armate e poi Festa dell'Unità nazionale), che è stata spostata alla prima domenica di novembre e, adesso, la stessa viene utilizzata come provvisorio ponte finanziario.
In realtà il ceto politico si sta presentando, come ha ricordato più volte Giuliano Amato, ancora una volta diviso all’appuntamento con i simboli dell’Unità nazionale. La vera aula parlamentare rischia di essere quella del palco del Festival di San Remo, all’interno del quale Roberto Benigni ha effettuato una trascinante commemorazione dell’inno nazionale. Lo stesso Presidente della Repubblica, che sta meritoriamente cesellando con il bulino in una situazione difficilissima perché il 17 marzo sia un avvenimento unitario, attende come salvifico il contributo dello stesso Pontefice alla celebrazione( probabilmente attraverso un messaggio), in modo da riequilibrare la posizione fortemente polemica della Lega Nord, che si connette con proposte alternative dell’articolazione centro-periferia.

2-La molteplicità di memorie e la carenza di condivisione delle stesse- Andiamo però alla radice del problema, al di là delle soluzioni più o meno raffazzonate che sono state recuperate e che, probabilmente, non toglieranno nulla alla riflessione sull’avvenimento. L’incertezza italiana contemporanea su se e come celebrare le proprie origini come Stato nazionale unitario nasce dal fatto che i ricordi sono molti (troppi) e divaricati ; e che la condivisione degli stessi non è incontroversa ( anzi per alcuni impossibile), mentre la coesione nazionale si è ridotta nell'ambito delle varie aree del paese in relazione ai fenomeni di globalizzazione, internazionalizzazione e integrazione che colpiscono in maniera differenziata l'area europea negli ultimi decenni . Un simile stato di fatto è aggravato dal mancato riallineamento del sistema partitico dopo la crisi di regime del 1992-93 e dallo sviluppo di partiti regionali (soprattutto al nord, ma anche al sud), che contestano la stessa comunità politica o richiedono una articolazione profondamente differente del tipo di Stato sulla base di una ricostruzione del passato alternativa a quella tradizionale.
Ciò che sta accadendo costituisce senza alcun dubbio un sintomo allarmante sul livello di coesione nazionale ed una conferma della mancanza di qualsivoglia egemonia politico-culturale all’interno dell’ordinamento, su cui costruire la richiesta identità nazionale. D’altro canto lo stesso accanimento a celebrare rischia di indebolire, più che rafforzare, la coesione residua.
Al fine di non essere schiacciati da interpretazioni miopi, c’ è però da chiedersi, seppur in maniera sintetica, quali siano le origini di questo fenomeno, che colpisce, con l’Italia, in maniera più pronunciata alcuni ordinamenti rispetto ad altri, e quali siano prognosi e terapie in materia.
A questo scopo ritengo che sia indispensabile inquadrare opportunamente un simile problema nell'onda lunga della storia costituzionale italiana, inglobando la stessa storia della Costituzione repubblicana. Il problema della legittimazione istituzionale del nostro sistema politico-costituzionale può essere analizzato sulla base del classico rapporto tra società civile, classe dirigente( di cui il ceto politico costituisce una parte) ed istituzioni, individuando l'onda lunga della storia nelle invarianze e nei problemi che si pongono praticamente.
Non è certo una scoperta che l’ordinamento politico costituzionale italiano sia sempre stato caratterizzato da una relativa debolezza della comunità politica, del regime e delle sue autorità, se si utilizzano le classiche categorie di David Easton. Il livello della comunità politica identifica l’ambito analitico che definisce la volontà di stare assieme formando una comunità riunita attorno a valori ed istituzioni comuni; quello del regime indica invece le norme,in valori, le regole del gioco e le strutture d’autorità in cui agiscono i soggetti politicamente rilevanti, mentre le autorità individuano coloro che legittimamente esercitano il potere politico all’interno dell’ordinamento.
Emilio Gentile nel suo recente volume dal titolo impressivo né stato,né nazione. Italiani senza meta ha evidenziato la crisi del sistema politico costituzionale complessivo sia per quanto riguarda l’identità che le istituzioni politiche .
A mio avviso, l’aspetto determinante della questione non sta, tuttavia , tanto se esista una identità della comunità politica ( al di là del regime che la caratterizza), perché il tempo ha dimostrato che è esistita e tuttora persiste, ma quale sia la forza e la qualità della stessa, corroborate dai soggetti che si pongono alla base dell’ordinamento e che ne costituiscono la classe dirigente ed il ceto politico. James Bryce lo aveva già messo in evidenza all’inizio del secolo scorso quando aveva parlato di elementi centripeti ed elementi centrifughi nell’ambito degli ordinamenti , seguito circa venticinque anni dopo dalla stessa categorizzazione di Carl Schmitt amico-nemico .
Una simile questione era, d’altro canto, ben presente, già pochi anni dopo la proclamazione del Regno, anche allo stesso Massimo d'Azeglio, politico e letterato di prima grandezza , che, nella prefazione al volume di Ricordi, databile attorno al 1866, affermò ,com’è noto, che “il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno verso il polo opposto: pur troppo si è fatta l'Italia , ma non si fanno gli italiani” . Si badi bene, il giudizio non era che non ci fossero italiani, ma che la loro identità come comunità politica fosse debole e che dovesse essere rafforzata, sviluppando in maniera opportuna gli elementi eminenti della classe dirigente. D'Azeglio, richiamando in maniera singolare la figura di un aristocratico innovatore del “nuovo mondo” come George Washington e la preferenza dello stesso per i gentlemen, individuava l'esigenza di un ceto politico adeguato alla bisogna sulla base del classico apologo della nave e dell'esigenza che chi sa deve governare e chi non sa ubbidire, anticipando la posizione apparentemente meritocratica di Gaetano Mosca.
Le ragioni della debolezza dell’identità italiana possono essere verificate nel rapporto tra istituzioni , ceto politico nell'ambito della dinamica classe dirigente e la società civile proprio in quattro momenti topici del percorso effettuato dallo Stato italiano e dal sentimento nazionale . Il momento iniziale coincide appunto con il 1861 ed in sostanza con le parole di D'Azeglio, che già prefigura il disincanto degli anni Ottanta del secolo XIX.
Il secondo con il 1911, data di celebrazione del primo cinquantennio unitario, anno della guerra di Libia, ma soprattutto anno che precede l'allargamento del suffragio ed apre- con le convulsioni del primo conflitto mondiale, del dopoguerra e del fascismo- alla fine dello Stato liberale oligarchico ed al fallimento della brevissima esperienza liberale- democratica. Il terzo con il 1961, anno di celebrazione del primo centenario, in un periodo di espansione economica e di decisione riformistica che precede il centro-sinistra. Il quarto,infine, si connette con il presente centrifugo dove gli elementi di formazione della stessa comunità politica sembrano contestati all’interno degli accennati processi di devoluzione, integrazione,internazionalizzazione e globalizzazione.
Solo su questa base mi sembra sia possibile fornire un giudizio un giudizio sul livello del senso di identità ed il suo variare nel tempo.

3-L’esperienza pre-unitaria – Partiamo proprio da D'Azeglio e dalla sua celeberrima frase, comparandola con l'affermazione di un celebre cultore di government come Lowell, che nel 1896 sostenne esservi stato in Italia e in Germania un ritardo nella formazione dello Stato e non della Nazione. Si tratta di posizioni che sembrano solo apparentemente in forte contraddizione.
A ben vedere non c’è inconciliabilità tra le due impostazioni. D'Azeglio nell' Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta (1833) aveva evidenziato, sul piano letterario ma anche politico, la presenza del sentimento di identità nazionale, idealizzando uno scontro tra italiani e francesi del 1503. Ciò che più di trenta anni dopo egli aveva- invece- voluto sottolineare come sincero liberale, fratello di Luigi Taparelli D'Azeglio uno dei più strenui sostenitori del potere temporale della Chiesa e di Pio IX, era invece la necessità che vi fosse una adeguata classe dirigente ed un corrispondente ceto politico all’interno dell’ordinamento. Nel capitolo II dei citati Ricordi, oltre all'idealizzazione dell’esempio ascetico del padre , egli evidenziò la necessità di un ceto politico appropriato e nello stesso tempo il timore che il processo di mutamento della società tradizionale potesse far pendere la bilancia o verso il despotismo o verso l’anarchia. La critica di D’Azeglio alla Russia di Alessandro, che aveva eliminato la servitù della gleba, e agli Usa di Lincon, che avevano iniziato la guerra civile contro lo schiavismo, descriveva sia la prospettiva del liberalismo illuminato, ma prudente che aveva egemonizzato il processo unitario nel decennio dei portenti, sia il pericolo di disincanto che la realtà unitaria avrebbe comportato di lì a poco. C’era anche da un lato la consapevolezza, presente ugualmente in Tocqueville, dei pericoli cui il modello europeo poteva essere soggetto sulla base degli esempi sopraddetti;dall’altro l’attenzione per il dato internazionale. Ma soprattutto D’Azeglio rimarcava la necessità dell’assestamento del regime con la costruzione di un assetto istituzionale in cui classe dirigente e ceto politico potessero agire convenientemente.
In una simile prospettiva l’interpretazione di D’Azeglio non differiva, dunque, da quella di Lowell, influenzata dalla letteratura italiana degli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX sul cosiddetto parlamentarismo, e poteva rinviare ai problemi immani della fondazione di un nuovo assetto istituzionale, con la fusione – annessione del vecchio regime all’interno del contesto dello Statuto Albertino .
In questo quadro lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna nacque come il frutto del superamento della monarchia consultiva sardo-piemontese e come accesso ad una monarchia costituzionale pura. Alle sue spalle si ponevano non tanto le rivoluzioni inglese(due), americana e francese, ma sopratutto il costituzionalismo della restaurazione (Francia 1814 e poi 1830;il Belgio 1831; il costituzionalismo tedesco meridionale e prussiano) e la stessa esperienza costituzionale italiana post-1789.
Ci si dimentica troppo spesso che nel 1848 si ebbe la prima esplosione del suffragio universale maschile(Francia,Svizzera e, poi, nella Germania imperiale del 1871) e che la febbre invase tutta Europa ed anche l’Italia (dalla Sicilia, che aveva preceduto il movimento nel gennaio, agli altri Stati, tra cui il Regno sabaudo). Ma alla base del costituzionalismo statutario si posero non solo le esperienze internazionali (preferenza per il gradualismo equilibrato inglese, rifiuto per il razionalismo istituzionale francese nella versione giacobina della sovranità popolare, avversione per il principio monarchico della restaurazione), ma soprattutto quelle italiane, derivanti dalla peculiarità di una area geografica divisa territorialmente e, soprattutto, caratterizzata dalla presenza del potere temporale della Chiesa cattolica. Fin quando il Papato non respinse definitivamente le ipotesi di congiunzione al movimento nazionale, la prospettiva moderata si mosse sulle vie confederali e di preservazione della legittimità tradizionale, poi avvenne la svolta, anche per impedire che soluzioni più drastiche di rottura potessero avere accesso.
Il compromesso unitario si basò sulla soluzione monarchico-rappresentativa disegnata in maniera generica dallo Statuto . Le alternative del 1848 furono invero varie . Nell’Europa continentale( mentre la Gran Bretagna proseguiva il suo peculiare ed esemplare sviluppo tra Great Reform Bill del 1832 e, poi, Representation Act del 1867, che tanta influenza avrebbe avuto sui benpensanti moderati) accanto all’ipotesi reazionaria sembrò messa in pericolo dalla rivoluzione anche quella borghese di tipo crematista. L’allontanamento di Metternich parve aver chiuso l’epoca della restaurazione, ma anche quella della monarchia borghese di Luigi Filippo e la stagione classica del parlamentarismo . Dopo Cavignac la II Repubblica francese, che aveva già da tempo superato la questione della formazione dello Stato e della Nazione, affrontò la questione della democratizzazione con l’estensione del suffragio universale maschile e scelse la forma di governo presidenziale, degenerando rapidamente nel plebiscitarismo del II Impero di Luigi Napoleone. In Germania a Francoforte la Costituente approvò, invece, la Carta dei diritti fondamentali , poi il compromesso “piccolo tedesco”. Questione nazionale, instaurazione dello Stato di diritto legislativo e democratizzazione, dunque, finirono per sovrapporsi, mentre in Francia le divergenti posizioni presenti furono il prodromo della deriva plebiscitaria e carismatica di Luigi Napoleone e poi del II Impero.
In Italia la questione nazionale e quella istituzionale ondeggiarono invece tra preservazione e rottura del principio di legittimità tradizionale, tra tipo di Stato federale ,confederale accentrato, tra forma di governo monarchico-costituzionale e forma di governo parlamentare su base fortemente censitaria , per arrivare all’estremo simbolico della Repubblica romana del 1849 con l’affermazione della sovranità popolare e del suffragio universale maschile.
La soluzione che scaturì dai due lustri del portento(1848-1859) fu quella monarchico – rappresentativa dello Statuto , capace di adeguarsi alle contraddizioni di una scelta derivante dalle fratture tra laici e cattolici,tra nord e sud, tra città e campagna,tra progressisti e moderati,tra rivoluzionari e conservatori.

4-L’egemonia moderata e l’Unità nazionale- Le alternative esistevano, dunque, formalmente, ma l’unica realistica fu quella sabauda, appoggiata da un ceto politico sufficientemente consapevole. Nel 1848 lo Statuto Albertino venne apparentemente concesso come in altri ordinamenti italiani. L’uso dell’avverbio deriva dal fatto che la stessa concessione derivava dall’esigenza di non farsi superare dagli avvenimenti. Il vecchio ceto politico sardo-piemontese consigliò, in febbraio, il Sovrano di provvedere in correlazione con i tempi e nel marzo si ritirò in buon ordine. I tempi, si direbbe anche oggi, non erano più quelli di una volta . I liberali più accorti erano consapevoli dei pericoli del momento e,ad es., tutti gli interventi del Cavour su legge elettorale e Costituente furono conseguenti . Le alternative democratiche erano, infatti, presenti e differenziate, come quelle più retrive. Chi analizzi le posizioni del movimento rivoluzionario lombardo può infatti toccare con mano la divaricazione tra il moderatismo di un Casati e la radicalità di Cattaneo , così come in Toscana o nell’Emilia. Le vicende della Repubblica romana ed in suoi precedenti con l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga a Gaeta di Pio IX costituiscono di tutto ciò una ulteriore conferma, al di là della esemplarità del testo costituzionale in cui si proclamava, appunto, la sovranità popolare, mentre le truppe francesi erano già in Campidoglio.
Lo Statuto,annunziato nel febbraio e concesso nel marzo 1848, fu immediatamente oggetto di discussione. Non solo per quanto riguardava la sua natura intrinseca, ma anche gli istituti. Nel giugno nel 1848 le Camere del Regno Sardo furono poste di fronte al plebiscito di unificazione lombardo e misero in conto sia la Costituente ,ovvero la ridiscussione dello stesso testo costituzionale, sia le concrete soluzioni che nel medesimo erano contenute . Oggetto del dibattito tra il giugno ed il luglio di quell’anno furono ,da un lato, la legge elettorale sia per quanto riguardava l’estensione del suffragio , sia per quanto atteneva al tema del sistema elettorale in senso stretto. La forma di governo monarchico costituzionale originaria assunse convenzionalmente caratteristiche parlamentari ( che nel tempo sono state considerate da alcuni come pseudo – parlamentari) , mentre si discuteva della modifica del Senato vitalizio di nomina regia.
La questione della natura dello Statuto (stante la mancanza regole espresse per la sua modificazione) divenne un tema su cui prima il ceto politico e l’opinione pubblica e , poi, la dottrina, si soffermarono.
Se lo Statuto era stato concesso dal Sovrano dicevano alcuni , e non vi era indicazione sulle procedure di revisione , allora solo il Sovrano avrebbe potuto modificarlo. Altri sosteneva che la modifica era impossibile vista l’irrevocabilità della concessione da parte del Monarca, mentre- al di là di coloro che richiedevano la Costituente- ovvero la ridiscussione unilaterale del patto(il potere costituente è come noto il più libero dal fine)- la parte più responsabile individuava nel potere legislativo (ovvero nel Parlamento ) l’istituzione che avrebbe potuto modificare la Carta.
Ovviamente le tradizioni costituzionali in campo avevano del potere legislativo una differente concezione: quella di derivazione britannica, che riuscì ad affermarsi nel processo unitario , vedeva nel parlamento un organo complesso in cui convergevano le due Camere ed il Sovrano, mentre quelle di derivazione francese lo vedevano concentrato tendenzialmente in modo esclusivo nelle Camere , se non addirittura solo in quella di derivazione popolare. La soluzione, sponsorizzata dal Cavour, del Parlamento come organo complesso sulla base della recezione della storia costituzionale britannica (penso all’impulso di vera e propria cultura costituzionale da parte di Cavour, perché D’Ondes Reggio traducesse in Italiano l’opera di Hallam ) venne sostenuta proprio dal Cavour già nel biennio (1848-49) e poi da Zanardelli . Essa si consoliderà dopo la duplice sconfitta militare ( Custoza – luglio 1848 e Novara – marzo 1849). Parte della classe dirigente piemontese ( cavourriani in testa) e la monarchia (Vittorio Emanuele II) non solo non retrocessero dalla prospettiva liberale moderata, ma la implementarono contrapponendosi al potere temporale della Chiesa ed alla sua ingerenza nel governo civile.
Il riformismo cavourriano fu in sostanza rivoluzionario e moderato ( bisogna intendersi ovviamente sul grado delle due espressioni ) allo stesso tempo, riuscendo a far divenire il Piemonte il centro del sistema risorgimentale ed affermandolo sul piano europeo. Dopo la II guerra di indipendenza, la conquista del Regno delle due Sicilie e le varie annessioni, in realtà il tema rappresentato dalla duplice coppia riforma – rivoluzione, continuità -rinnovamento si evidenziò in maniera plastica nella citata legge sull’intitolazione del Sovrano e degli atti normativi. A suo tempo Carl Schmitt mise in evidenza il compromesso ambiguo della Reichsverfassung del 1871 , ma è indubbio che Bismarck operò molto più nella continuità del principio di legittimità di quanto non avesse fatto il Cavour. La legittimità tradizionale con il Regno d’Italia venne in effetti schiantata non soltanto con la conquista- annessione, ma soprattutto con i plebisciti , che ammettevano in un certo senso la volontà popolare nel momento fondativo del regime. Come si è già osservato, Vittorio Emanuele assunse la denominazione di Re d’Italia ( e non di Re degli Italiani come voleva qualcuno) e conservò la numerazione ordinale del Regno Sardo, ma significativamente in Senato si tentò di aggiungere immediatamente , durante la discussione sulla legge, l’articolo sulla formula degli atti giuridica, per cui il Sovrano era “per Provvidenza divina Dio, per voto della nazione “ Re d’Italia .
Chi legga gli atti parlamentari del periodo si rende conto della tensione che covava dietro queste differenti dizioni e potrà trovare conferma della costanza di alcuni difetti del nostro ordinamento( ad es. il bicameralismo), pur nella differenza delle basi originarie degli stessi.

5-I primi cinquanta anni di vicenda unitaria e l’indebolimento progressivo dello Stato liberale oligarchico- 5.1-Il periodo della Destra storica:1861-1876- Fino al 1876 il problema della innovazione istituzionale sui livelli precedentemente accennati si pose sotto l’aspetto della stessa costruzione dello Stato e di un apparato burocratico unitario . Stante il compromesso istituzionale statutario il problema del tipo di Stato (regionale, e non certo federale, o accentrato) e quello della costruzione di un apparato normativo unitario venne fortemente condizionato dalle fratture interne esistenti e dalla realtà dei rapporti internazionali. La situazione del deficit pubblico , la guerra civile endemica in alcune aree del sud, le tensioni estreme con la Chiesa cattolica non potevano non condizionare un ordinamento i cui fondamenti rappresentativi erano estremamente esigui e frantumati in consorterie regionali.
Il tema dei partiti e della stabilità degli esecutivi apparve già negli anni Sessanta del XIX secolo , anche se Giuseppe Maranini ne’ la sua Storia del potere in Italia ha visto nel connubio cavourriano il prodromo dei costanti difetti italiani. L’accordo del febbraio 1852 tra Cavour – Rattazzi, osteggiato dal D’Azeglio, si concretizzò nel novembre successivo ed aveva alla sua base ragioni di politica internazionale (gli effetti del colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte del dicembre precedente) e di politica interna (l’isolamento delle estreme).
Ma questa impostazione rischia di precorrere in tempi ed essere di tipo ideologico. La crisi del movimento risorgimentale e del suo ceto politico si giocò, infatti, dopo la terza guerra di indipendenza e la conquista di Roma, con la fine del potere temporale del Pontefice. Il non expedit papale ( Vito D’Ondes Reggio costituisce, appunto, un simbolo interessante del ritiro sull’Aventino unitario di una parte degli intellettuali cattolici che avevano cooperato all’Unificazione) aggravò ancor più la debolezza di una rappresentanza censitaria estremamente ristretta.
La sconfitta della Destra storica, impegnata su molti fronti ma soprattutto su quello del deficit pubblico, ed il passaggio di potere alla Sinistra di Depretis posero all’ordine del giorno la questione elettorale, che costituisce non soltanto un tema che investe la forma di governo , ma anche la stessa forma di Stato.

5.2– La Sinistra, il trasformismo e le opzioni autoritarie:1876-1899- Dal 1876 l’argomento dell’allargamento del suffragio e delle riforme del meccanismo di voto divenne essenziale. Non è un caso che le questioni connesse del sistema dei partiti, della qualità del ceto politico, del funzionamento delle istituzioni rappresentative e burocratiche apparvero in modo paradigmatico proprio in quegli anni. L’opera di Minghetti e le osservazioni di Crispi si connettono con l’attività critica di molti costituzionalisti (Mosca e Orlando tra questi) nei confronti della cosiddetta polemica contro il parlamentarismo, così efficacemente rappresentata da Federico De Roberto ne’ I viceré e ne’ L’imperio . La critica dei difetti di un sistema, che sembrava avere perso lo smalto delle speranze risorgimentali, divenne intensa,anche in relazione al progressivo allargamento delle disomogeneità sociali e politiche dell’ordinamento.
Nel successivo venticinquennio l’avvento della sinistra legò l’allargamento della base elettorale alla riforma dei sistema di votazione all’incapacità di costruire maggioranze e partiti coesi. La formula ambigua del governo monarchico rappresentativo(di cui all’art. 2 dello Statuto), che aveva dato la possibilità di interpretare la dinamica della forma di governo in maniera profondamente differente nel corso del periodo preunitario, torse la Carta fondamentale del Regno verso un assetto di tipo liberale rappresentativo, che lasciava al sovrano poteri di riserva sulla base della prerogativa regia .
In questo periodo,dove alla generazione che aveva costituito il nuovo Regno se ne era affacciata una nuova, non soltanto i modelli costituzionali inglese,francese e tedesco vennero discussi per importarne novità tradotte in italiano sulla base delle esigenze nazionali, ma si formò la coscienza della necessità di una nuova ideologia rispetto a quella precedente.

Di fronte alle istanze ancora alienate dallo Stato unitario del movimento cattolico, che si preparava con Leone XIII all’ingresso nell’arena politica in maniera progressiva iniziando dal basso, e a quelle del movimento operario che utilizzava il baccello radicale o repubblicano, due furono le ideologie che si proposero all’interno del sistema.
La prima e più fortunata fu l’ideologia giuridica della personalità dello Stato orlandiana, che cercò di coprire le contraddizioni che venivano evidenziate dal contrasto tra monarchia e rappresentanza e che si sostanziarono nei tentativi di ritorno letterale allo Statuto nell’ultimo lustro degli anni Novanta del secolo XIX.
La seconda fu quella moschiana, che descrisse in maniera lucida le insufficienze del ceto politico e della classe dirigente, proponendo ipotesi di tipo meritocratico ed efficientistico.
In questa fase,che abbraccia successivamente gli anni Novanta,con le ipotesi conservatrici di Crispi e di Sonnino, la riforma istituzionale si concentra su sul tema dell’allargamento del suffragio(capacità elettorale attiva e passiva), sul sistema elettorale in senso stretto(scrutinio di lista e voto limitato) e sull’ipotesi di trasformazione del Senato. Esemplare di un moderatismo illuminato,incapace di essere compreso dalle contraddizioni del sistema, risultò il progetto di Luigi Palma,che esprimeva l’esigenza di riequilibrare il rapporto tra i poteri attivi attraverso la parziale elezione del Senato da parte delle rappresentanze locali. Si tratta di una delle tante ipotesi di innovazione, cui si affiancarono quelle più decise della destra conservatrice di istituzione di un Consiglio della Corona(un tentativo di ritorno alla monarchia consultiva),indice della propensione verso il modello tedesco.

6-Il primo cinquantenario tra espansione interna e esterna-La terza fase della vicenda statutaria è rappresentata dal periodo giolittiano,che si estende dagli inizi del secolo sino all’immediato primo dopoguerra, in cui si inserisce la celebrazione del primo cinquantenario. La struttura del compromesso monarchico-rappresentativo incominciava palesemente a cedere sotto i colpi dell’allargamento del suffragio maschile e della formazione dei partiti di massa.
Il primo cinquantenario fu celebrato al culmine del periodo giolittiano. Dopo i tentativi di germanizzazione del sistema effettuati negli anni Novanta del secolo precedente con il ritorno allo Statuto di Sonnino, il Governo Pelloux, le cannonate di Bava Beccaris e l’utilizzazione intensa dello stato d’assedio politico avvenne la svolta. Mutamento cruento accompagnato dal regicidio di Umberto I a Monza da parte dell’anarchico Bresci, ma simbolico di una profonda ed inarrestabile inversione di tendenza. Il nuovo sovrano si defilò di fronte all’unità delle forze politiche, mentre gli innovati regolamenti parlamentari e lo statuto del Governo(decreto Zanardelli) definirono i termini ed i limiti della svolta. L’Esecutivo non interveniva nei conflitti di lavoro, si aprivano spiragli di Stato sociale, il Parlamento interveniva, l’economia si espandeva , si pensava concretamente all’allargamento del suffragio maschile. L’età giolittina definì contraddittoriamente la fine dello Stato liberale oligarchico con la crescita del Partito socialista e delle sue correnti massimaliste, con il crescente e conseguente impegno dei cattolici spinti da una gerarchia ecclesiastica preoccupata e antimodernista, con una destra insoddisfatta e pronta a lanciarsi nelle acque delle imprese imperialiste.
Il 1910-1912 furono pieni di avvenimenti significativi. Nell’aprile 1910 Luigi Luzzatti successe a Sonnino e, appoggiato anche dai socialisti che lo abbandonarono nel dicembre, si dichiarò a favore della riforma elettorale, che presenterà ufficialmente a fine d’anno, della statalizzazione del sistema scolastico e della eleggibilità del presidente del Senato. Il 17 marzo 1911 a Torino si ritrovarono i sindaci dei comuni subalpini, mentre alla Camera le parole di celebrazione dell’on. Paniè vennero approvate dai deputati dell’estrema sinistra, compresi i socialisti, avvenimento sottolineato dai quotidiani il giorno seguente(La Stampa,18 marzo 1911). D’altro canto proprio il 18 marzo si discusse a Montecitorio della riforma elettorale, mentre scoppiò una significativa polemica per la commemorazione dell’Unità in Campidoglio, cui non erano stati invitati i deputati. Fuoco sotto la cenere: a dicembre venne fondata l’Associazione Nazionalistica Italiana, mentre l’anno successivo iniziò il triennio del IV Governo Giolitti, che concretizzò il progetto di riforma elettorale e tentò di allargare la maggioranza sul polo del socialismo riformista(Bissolati),rintuzzato dal massimalismo mussoliniano, che sarà rinvigorito dall’ opposizione all’impresa libica .
In un simile contesto le celebrazioni del cinquantenario del Regno videro il rafforzamento progressivo di coloro che in origine erano stati esclusi da quell’avvenimento e il loro ingresso ufficiale sulla scena. Sono, appunto, i socialisti e i cattolici, che nel 1919 saranno gli elementi determinanti della fase liberal-democratica e del suo fallimento che rappresentano gli elementi di chi non c’era ancora nel 1861 o di chi aveva contrastato apertamente l’Unità. Tra i protagonisti di cinquant’anni prima rimanevano i liberali moderati, i radicali e i repubblicani, divisi più di allora, mentre avanzava la destra imperialista rappresentata dal nazionalismo social- darwinista.
Il 1911 si aprì dunque con le celebrazioni tra Vittoriano e Pantheon, ma le due questioni prevalenti furono da un lato l’allargamento del suffragio e la guerra di Libia. Come dire che il problema della base interna e quello dell’espansione esterna del sistema si congiunsero pericolosamente. L’Italietta di Giolitti non poteva che essere odiata dagli intellettuali e il patto Gentiloni del 1913 non poteva supportarla in maniera sufficiente nel futuro. La guerra mondiale, non voluta dal Parlamento, dimostrò che la tutela monarchica sulla forma di governo era sempre presente nei momenti topici e il radiosomaggismo scosse profondamente le fondamenta del sistema.
Il primo conflitto mondiale forgiò indubbiamente l’identità nazionale del Paese, ma evidenziò anche le sue debolezze. L’ordinamento seppe resistere alle scosse belliche e subì i fenomeni di torsione costituzionale che colpirono altri contendenti durante il conflitto, ma dimostrò tutta la propria debolezza nel processo di riconversione postbellico. I nodi precedenti vennero al pettine e si evidenziò palese l’incapacità della classe dirigente ed in particolare del ceto politico di evitare l’implosione democratica.

7-Il fascismo tra continuità e nuovi riti -Con il 1919 e le prime elezioni con lo scrutinio di lista e formula non maggioritaria iniziò la brevissima esperienza liberale e democratica all’interno dello Statuto. Non è un caso che proprio in questo periodo, riprendendo la discussione già prospettata negli anni Ottanta e Novanta del secolo precedente e poi, più seriamente, alle soglie del primo decennio del secolo, si parli di riforme istituzionali. Alle proposte di Crispi e di Sonnino si erano successe nel tempo quelle di Arcoleo e, poi nel 1919, di Tittoni e di Ruffini, mentre è proprio l’assetto della monarchia rappresentativa che venne ridiscusso in una prospettiva che tendeva a modificare non soltanto la rappresentanza fiduciaria, introducendo elementi di rappresentanza organica e di partito, ma aspirava a introdurre modelli alternativi rispetto al compromesso risorgimentale .
L’impossibilità( o la mancanza di volontà) di controllare le tendenze centrifughe portarono alla politica dei blocchi e all’illusione di utilizzare temporaneamente il fascismo come elemento stabilizzatore del sistema. Di fronte all’impossibilità di costruire un vero partito conservatore contrapposto ad uno progressista legittimato la scelta del fascismo venne spacciata come elemento di continuità con il processo risorgimentale. Si trattava di una illusione. La politica di massa poteva essere democratica, autoritaria o totalitaria, ma divergeva profondamente con l’ideale della classe dirigente ingenua di D’Azeglio e con la permanenza delle stesse istituzioni statutarie.
Con il 1922(ottobre) iniziò,dunque, la quinta fase della vicenda statutaria con la modifica plastica dello stesso Statuto in senso autoritario e con la sua rottura sostanziale attraverso le riforme incrementali del regime. Per l’identificazione del momento della rottura alcuni identificano il 1925, altri la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, altri ancora le leggi razziali nel 1938.
In questa prospettiva, se le celebrazioni del 1921 avevano lasciato da parte il mito risorgimentale, per rigenerarlo nei riti di ricordo dei caduti e del sacrificio durante la grande guerra , contrapponendo gli stessi alla freddezza se non alla ripulsa dei settori rivoluzionari, con il fascismo venne tralasciata ogni prospettiva liberale, cosicché su Mosca ed Orlando vinse l’‘impostazione di Rocco , che cercò una costruzione statolatrica adeguata alla politica di massa, con la fine dei conflitti sociali e la presenza di un Capo e di un partito.
In un simile contesto sopravvissero la Festa dello Statuto e del 20 Settembre (invero messa in seconda linea dalla convergenza progressiva verso la Conciliazione ), ma vennero introdotte altre significative celebrazioni che si collegavano al nuovo regime . I nuovi riti del fascismo evidenziarono – come ha sottolineato Emilio Gentile- il passaggio dal culto della patria al culto del Littorio . Al 24 maggio ed al 4 novembre celebrativi della ultima guerra risorgimentale si affiancarono infatti il 23 marzo (fondazione dei fasci di combattimento nel 1919 ), il 21 aprile (fondazione di Roma), il 28 ottobre(marcia su Roma) e poi il 9 maggio(proclamazione dell’Impero nel 1936), nell’ambito di un progressivo indebolimento del compromesso diarchico tra monarchia e fascismo , che-proprio alla fine degli anni Trenta- stava per collassare.
8.-La Costituzione repubblicana e la memoria divisa – Alle spalle del 25 luglio, dell’armistizio e del Regno del Sud,il decreto legge lgt. N. 151 del giugno 1944 costituì una vera e propria costituzione transitoria dell’ordinamento . Lo Statuto cessò di avere vigore con questo atto che interruppe lo stesso rapporto tra monarca e governo, il quale non gli giurò più fedeltà. Si potrebbe sostenere d’altra parte che questo atto formale era stato preceduto in maniera sostanziale dalla pratica abdicazione del Sovrano il 5 giugno di quell’anno, in applicazione del compromesso istituzionale con i partiti del CLN, e dalla nomina del principe di Piemonte come luogotenente del Regno e non più come luogotenente del Re.
I lavori della Costituente che furono preceduti dal referendum istituzionale e dalle elezioni della stessa evidenziano la spaccatura tra le forze politiche esistenti nel paese, ma anche la tendenza compromissoria per la costruzione di una casa comune che sono verificabili nella cosiddetta fase di elaborazione 1946-47. Essa è stata la più studiata per le sue implicazioni interne ed esterne. In occasione del XXX anniversario si è teso ad esaltare il momento interno del compromesso, evidenziando l’accordo che aveva portato all’approvazione del teso costituzionale da parte delle maggiori formazioni partitiche di massa. Tra il 1948-1954 venne, invece, operato il tentativo di utilizzare lo strumento elettorale per stabilizzare le maggioranze attorno al partito pilone(la DC), ma anche in funzione di una modifica intensa della Costituzione.
Dopo il fallimento della manovra elettorale del 1953 la prospettiva alternativa fu quella di utilizzare la Costituzione e la sua attuazione al fine dell’integrazione di tutte le forze all’interno del sistema (prima il PSI, rinsecchimento del PCI; applicazione del principio maggioritario – minoritario per superare la conventio ad excludendum). Il primo decennale della liberazione venne significativamente vissuto da alcuni come secondo Risorgimento, da altri come rivoluzione tradita, da altri ancora come rivoluzione mancata.

9-Il centenario – Tuttavia con il 1955 si riaprì la strada del colloquio istituzionale anche grazie al disgelo internazione. In un simile clima che tiene conto della crisi del centrismo, della progressiva applicazione della Costituzione e della contraddittoria apertura verso il centro sinistra si collocarono le celebrazioni del centenario nel 1961, che dimostrarono una maggiore consapevolezza del senso di appartenenza, dimostratosi diviso in occasione del primo decennale della Liberazione.
In misura maggiore o minore il sistema era agli inizi degli anni Sessanta strutturato da grandi partiti nazionali che si richiamavano al Risorgimento (il Pci basava la sua ideologia sull’interpretazione della storia d’Italia e sull’intervento delle masse popolari) , che avevano contribuito a redigere la Costituzione repubblicana e che negli anni 50 erano risaliti dal baratro della guerra fino a raggiungere l’oscar per la lira.
Dopo lo sbandamento Tambroni con la rottura della convenzione che escludeva in partiti non dell’arco costituzionale dal Governo , in continuità con il disgelo costituzionale dal fallimento della cosiddetta legge truffa , quei soggetti pensarono di poter sviluppare l’ordinamento nell’alveo dei valori e dei principi della Costituzione Repubblicana. Cinquanta anni fa le celebrazioni si fecero in Italia , ma anche a Washington. Sulla prima pagine de’ la Stampa del 18 marzo possono, infatti, trovarsi tre significativi articoli che danno l’immagine del periodo . Il primo è un fondo di Lugi Salvatorelli che sostenne come “l’'ideale politico unitario [fosse] già perfetto nel 1799” cosicché “le tre linee dell'indipendenza, libertà, unità”-svoltesi “smussamente durante la Restaurazione” – si sarebbero intrecciate nel tentativo (fallito) di unità confederale nel 1848, per poi stringersi insieme portando “alla fondazione dello Stato unitario italiano”.
Impostazione invero orientata quella di Salvatorelli, tipicamente azionista, che deve essere appoggiata alla cronaca della celebrazione organizzata, non a Roma ma a Washington, dall’ambasciatore Manlio Brosio alla presenza del presidente Kennedy. Il ricordo va a D’Azeglio e al fatto che nelle Assemblee parlamentari 1861 si era fatto riferimento alle potenze europee (Gran Bretagna,Francia e Prussia) e nel 1961 la contrapposizione vedeva la celebrazione negli Usa.
Il terzo articolo presente sulla prima pagina de “La Stampa” riportava, invece, l’aspro dibattito interno al Psi sull’apertura alla DC per l’ipotesi di un’alleanza di centro-sinistra, con l’opposizione intensa di Vecchietti e Basso all’autonomismo nenniano. I prodromi della crisi stanno proprio qui. Una parte del Psi, quella che esalta l’URSS e la sua capacità propulsiva, si accompagna alla posizione del Pci che teme di essere emarginato, mentre la classe dirigente e il ceto politico moderato temono i risultati dell’apertura a sinistra . Il fallimento dell’ipotesi riformista alla fine degli anni Sessanta introdusse, con il completamento della costruzione costituzionale su basi consociative, alla lunga estenuante transizione che dal 1969 non porta all’integrazione del maggior partito di opposizione, ma all’involuzione del sistema, sino alla crisi del regime partitocratico senza controlli del 1992-93.

10.-La transizione infinita tra crisi di regime e crisi di riallineamento -Il fallimento dell’opzione di centro-sinistra e la sostanziale applicazione del modello costituzionale portarono alla stagione degli equilibri più avanzati e alla fase definita consociativa(1970-1978) con l’approvazione dei nuovi regolamenti parlamentari, degli statuti regionali, ma anche di normative fortemente incisive sul piano sociale(legge su l divorzio da cui deriva anche l’applicazione del referendum,Statuto dei lavoratori), nell’ambito della maggiore redistribuzione del reddito che sia mai esistita in Italia(favorita anche dall’inflazione derivante dalla crisi internazionale:dollaro;oil crisis).
Dopo l’esperienza dei governi di unità nazionale e lo scoppio del terrorismo, la mancata inserzione ufficiale del Pci all’interno del Governo portò , in correlazione con il modificarsi della situazione internazionale(Thatcher,Reagan), al ritorno ai governi di coalizione di centro-sinistra ( ma vi sono anche episodi di centro-destra), mentre il problema istituzionale assurse come punto centrale del dibattito. Non si fecero le grandi riforme, ma se ne discusse(v. le Commissione Bozzi),si riformarono i regolamenti parlamentari e si approvò la Legge sulla Presidenza del Consiglio.
Ma intanto la crisi stava covando a livello internazionale,europeo ed interno. Ne venne fuori,sulla base di Tangentopoli, ma anche dei referendum abrogativi la destrutturazione del regime partitocratico non regolato che aveva caratterizzato il cinquantennio precedente. Attenzione quanto parlo di partitocrazia mi riferisco alla degenerazione dello Stato dei partiti regolato, che per una serie di ragioni derivanti dalla natura delle forze politiche presenti non aveva potuto neppure essere impostato.
Siamo all’oggi, con il mancato riallineamento del sistema partitico e con il fallimento dell’ipotesi di Grande riforma portata avanti dalla Commissione bicamerale D’Alema(1997). Le istituzioni sono divenute oggetto di un contrasto che vede tutti dichiarare la necessità dell’innovazione , ma anche la presenza del sospetto reciproco.
Le riforme Bassanini a Costituzione vigente(1997) e poi la revisione del Titolo V della Cost.(2001) hanno avuto giustificazioni sistemiche, ma sono anche state sintomi della paura reciproca dei partners. La riforma costituzionale per la prima volta stata operata a maggioranza con effetti boomerang per quanto riguarda la riforma dell’intera parte seconda della Cost. (2005) e dello stesso sistema elettorale(2005).
La reiezione da parte del Corpo elettorale della riforma costituzionale del 2005 sembra avere bloccato il processo innovatore. I partners sono intervenuti in maniera consensuale nel ridurre i soggetti parlamentari (2008) ed hanno modificato in senso selettivo il meccanismo elettorale per il Parlamento europeo, ma la scarsa coesione delle nuove formazioni di partito ha comportato una moltiplicazione dei gruppi parlamentari.
In questa situazione di perenne incertezza ed attesa tutti i riti e i simboli unitari vennero progressivamente contestati. Negli anni Settanta la festa della Repubblica e il 4 novembre furono derubricati, mentre il 25 aprile venne contestato( non soltanto dalla destra neofascista) come rappresentativo non tanto della conclusione del II Risorgimento, come veniva proposto dai governi centristi nel primo decennio, ma come guerra civile e conflitto di classe, difficili da conciliare con la difesa del sistema negli anni della lotta contro il terrorismo.
Nel 2001, in connessione con la vittoria del polo moderato composto da Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, di origini azioniste, ha proposto un’azione forte sui simboli dell’Unità nazionale, che ha trovato sponde trasversali. Ma i fenomeni di devoluzione, integrazione e globalizzazione hanno trovato davanti a sé una classe dirigente ed un ceto politico frammentato ed incapace di superare la crisi di riallineamento post-1993 per cui le tensioni sull’dentità nazionale e sui simboli politici dell’ordinamento non scema, ma anzi cova come infiammazione cronica.
11-Conclusioni- La tesi che ho voluto sostenere in queste pagine è che nel nostro ordinamento la capacità egemonica della classe dirigente e del ceto politico di recuperare un sentimento comune di appartenenza come elemento essenziale della formola politica si è abbassata progressivamente e che oggi è , apparentemente, giunta a livelli minimi. Il tema simbolico delle celebrazioni dell’Unità d’Italia costituisce di questo una cartina di Tornasole. Nel 1861 gli atti dei protagonisti furono nonostante le difficoltà del processo unitario conseguenti: esistevano profonde fratture , ma le élites risorgimentali si mossero coerentemente rispetto ai valori dell’ordinamento , rappresentati dal compromesso che aveva una faccia moderata perché il processo condotto da Casa Savoia rassicurava sulla continuità e, nello stesso tempo, era rivoluzionario perché scardinava la legittimità tradizionale delle altre dinastie. Le leggi nn. 1 e 7 del nuovo Regno certificarono, come si è visto, una simile situazione in maniera plastica. Dopo vent’anni nel 1881 l’ampliamento del suffragio mise in pericolo quel compromesso instabile e la crisi del parlamentarismo rappresentò le contraddizioni del sistema, portando alle tensioni plebiscitario- autoritarie di tipo crispino, ma anche alle risposte ideologiche di Orlando e di Mosca. L’alternativa teorica tra classe politica e teoria della “ personalità dello Stato” costituì in modo differente il tentativo di stabilizzare il sistema sul lato dello Stato liberale oligarchico.
Nel 1911 le tensioni interne – al di là delle celebrazioni – registrarono la tendenza al superamento – archiviazione del compromesso del 1861 sulla base dell’inclusione rappresentata dal suffragio universale. Estensione del suffragio e tentativi di inglobare i nuovi protagonisti costituirono il tentativo di formare un nuovo blocco egemonico. Le aperture ai socialisti riformisti (Bissolati) e il patto Gentiloni (1913) costituirono il difficile tentativo di formare un nuovo blocco , che si scontrò con la guerra mondiale e la consapevole esigenza di parte della borghesia italiana di applicare schemi social darwinisti (Rocco), che trovarono espressione organica nel fascismo .
Dopo la II guerra mondiale lo Stato dei partiti di massa risultò costitutivo della stessa società civile e pervasivo delle istituzioni. Nonostante le divisioni su Costituzione e antifascismo si riuscì a trovare un punto di convergenza, che- però- venne indebolito oltre ogni modo dalla transizione post-1969, fino a sovrapporre trasformazioni comuni a tutti gli ordinamenti europei con specifici elementi di crisi nazionale.
Ciò che è stato narrato all’inizio di queste pagine evidenzia le difficoltà e le debolezze della situazione e dei soggetti protagonisti,con ricadute imbarazzanti sulla stessa tenuta istituzionale. Nella sua Guido Carocci Storia d’Italia sostenne che in Italia mancava ogni capacità egemonica e che i gruppi contrapposti non riuscivano a prevalere. Una simile descrizione a circa trentacinque anni di distanza può essere ancora sottoscritta ed evidenzia la sostanziale incapacità di indirizzare società e istituzioni verso il rinnovamento incisivo sia all’interno che all’esterno del quadro costituzionale.
A Monteveglio nel 1994 Giuseppe Dossetti, preoccupato per lo sgretolarsi dei soggetti politicamente rilevanti posti a base del testo costituzionale, aveva suggerito di esternalizzare i valori della stessa . In questa prospettiva si sono mossi anche costituzionalisti come Leopoldo Elia e Valerio Onida cercando di radicare l’ordinamento democratico e il compromesso valoriale della Costituzione in Europa e nel processo di costituzionalizzazione del diritto internazionale. Simili tentativi rappresentano la consapevolezza della gravità di una situazione di degrado morale e istituzionale che ha pochi precedenti. I segnali che vengono dal sistema politico-costituzionale e dalla stessa società civile continuano ad essere non incoraggianti, ma coerenti con lo sfarinamento istituzionale, economico e sociale, che fa paventare ad alcuni il timore della crisi societaria.
L’analisi effettuata evidenzia, però, che molte di queste difficoltà non sono fondate solo su elementi reali sibbene su contrapposizioni personali o di gruppi ed ingigantite dai canali mediatici. La migliore medicina sta , forse, nella consapevolezza dei pericoli che tutti rischiano di correre se persiste una tensione autodistruttiva .Lo Stato nazionale in ambito europeo è,infatti, divenuto sempre più parte di una costruzione di integrazione multilivello. Vi possono essere ordinamenti che perdono la capacità di stare assieme disgregati da forze centrifughe, ma è opportuno sapere che una simile debolezza si paga in termini di sviluppo e di competitività, con il rischio di essere emarginati dallo stesso contesto europeo, che oramai rappresenta l’unico argine allo tsunami della globalizzazione per l’area in questione.
E’ per questo che, di fronte ad una bassa consapevolezza dell’identità comune, può risultare errato accentuare i contrasti come si fa in un contenitore televisivo. E’ necessario,invece, individuare punti semplici ed essenziali di convergenza per una progressiva e definitiva normalizzazione dell’ordinamento. Il caso tedesco insegna che è possibile farlo con successo, se si vuole. La Bildungspolitik non si improvvisa e neanche la classe dirigente e il ceto politico, che- con ogni probabilità – continuerà a litigare fino al prossimo anniversario, perché l’unità nazionale nel 2011 non è solo un simbolo, per cui si deve anche sacrificare la vita(come molti hanno fatto in questi 150 anni), ma anche un obbiettivo interesse di coloro che di essa fanno parte.


      Questa voce è stata pubblicata in: Parlalex, SCRITTI RECENTI il 08/08/2020 Contrassegna il Permalink.