“L'ammissibilità del referendum elettorale” – 24 maggio 2007

Seminario su

 


L’AMMISSIBILITÀ DEI REFERENDUM IN MATERIA ELETTORALE

Facoltà di Scienze politiche di Roma “La Sapienza”, 24 maggio 2007

INDICE

Fulco Lanchester, Introduzione alla discussione

Franco Bassanini, Intervento

Roberto Borrello, Intervento

Piero Alberto Capotosti, Intervento

Beniamino Caravita, Intervento

Stefano Ceccanti, Intervento

Augusto Cerri, Intervento

Riccardo Chieppa, Intervento

Gianni Ferrara, Intervento

Vincenzo Lippolis, Intervento

Massimo Luciani, Intervento

Carlo Mezzanotte, Intervento

Cesare Pinelli, Intervento

Antonio Zorzi Giustiniani, Intervento

Fulco Lanchester, Conclusioni

INTRODUZIONE ALLA DISCUSSIONE

di

FULCO LANCHESTER[1]

Sommario: 1. Le ragioni della riunione – 2. La cronaca – 3. Il contesto di lungo e di medio periodo – 4. I temi in discussione e i soggetti coinvolti – 5. I quesiti referendari del 2007 – 6. Conclusioni

 


1. Le ragioni della riunione

L’avventura del referendum sul sistema elettorale per le Camere si è aperta il 24 aprile con l’inizio della raccolta delle firme da parte del Comitato promotore. È tempo dunque di discutere del tema dell’ammissibilità dei quesiti, che dovrà essere affrontato dalla Corte costituzionale. È vero che la Corte costituzionale sarà investita della questione solo a metà dicembre, ma è anche evidente che è opportuno orientarsi sul problema prima di quella scadenza,anche perché finora il dibattito in materia è stato insufficiente e generico.

Questo seminario è stato convocato proprio per riflettere sul tema specifico dei referendum in campo elettorale ed in particolare sui tre proposti dal Comitato Guzzetta – Segni. Sono stati invitati giuspubblicisti de “La Sapienza” e dell’area romana o assimilata, ma – in generale – persone che su questo argomento possono fornire un contributo critico, al di là di problemi di schieramento non eludibili nel contesto costituzionalistico.

Alcuni amici avevano suggerito di dare un taglio differente alla riunione, sostenendo l’importanza di una riflessione sul tema delle innovazioni elettorali da introdurre nell’ordinamento al fine di modificare la L. 270 /2005 ed evitare i referendum in oggetto.

La presente impostazione deriva non soltanto dalla necessità di evitare un tema usurato ed al di fuori della disponibilità dei singoli partecipanti ad una simile riunione, ma sopratutto dal fatto che da molte parti si ritiene scontato (e a senso univoco) il fatto che i quesiti siano ammissibili senza approfondire a sufficienza il profilo giuridico della questione. Una simile posizione appare funzionale alla accentuazione della gravità della situazione di contesto in cui versa l’ordinamento politico-costituzionale, in cui i soggetti politicamente rilevanti sembra che nulla facciano per mutare la situazione. D’altro canto, se tutto è deciso e il “pistolone” del referendum (per evocare l’immagine polemoerotica di Giuliano Amato) è carico, anche l’eventuale compromesso risulterebbe in gran parte nelle mani del Comitato, come ha cercato di far intendere recentemente Giovanni Guzzetta. Se invece si verifica che le polveri sono parzialmente bagnate, la discussione cambia prospettiva.

Bene è quindi anticipare i tempi della riflessione tecnica, controllando il torbido contesto climatico che sovrappone interessi sistemici a strategie partigiane.

L’incontro odierno si svolgerà in maniera semplificata e leggera ed ha lo scopo di ripercorrere ex ante una esperienza che ho già effettuato con la sent. n. 47 del 1991, in materia di preferenza multipla (Roma, Bulzoni, 1992).

Allora censii e raccolsi ex post il materiale relativo alla decisione della Corte in tema di ammissibilità del referendum relativo alla preferenza multipla, che – da un lato – aprì la strada alla consultazione sul sistema elettorale in senso stretto del Senato del 1993 e che – dall’altro – convinse le Camere ad introdurre la legge n. 81 di quell’anno per evitare la consultazione sul sistema elettorale degli enti locali.

Oggi – come detto – ritengo sia utile anticipare i tempi per chiarire a noi e agli altri i termini della questione. Ritengo, inoltre, che in sede universitaria questo non sia soltanto opportuno, ma doveroso e sfugga a qualsiasi tipo di critica, sviluppatesi in maniera non limpida ancora recentemente che – formalmente – ha causato le dimissioni del giudice costituzionale Vaccarella.

 


2. La cronaca

Prima di iniziare con il giro di opinioni è indispensabile una premessa di inquadramento sul clima in cui si sta sviluppando il dibattito politico-costituzionale in argomento, sui precedenti, sugli elementi in discussione (sistema elettorale-referendum) e la loro vicenda in Italia, sui quesiti proposti e la loro compatibilità con l’ordinamento costituzionale.

Parto dalla cronaca. La settimana scorsa è stato nuovamente rievocato lo spettro della crisi di regime del 1992. L’On. D’Alema, in occasione della presentazione del volume di Luciano Violante Uncorrect. 10 passi per evitare il fallimento del Partito Democratico e, poi , in una intervista domenicale sul Corriere della Sera, ha fatto riferimento in modo plateale alla crisi di quindici anni fa ed ha implicitamente evocato da un lato la figura di De Gaulle con le istituzioni della V Repubblica, dall’altro Togliatti e l’esigenza di un partito di tipo nuovo.

Di fronte alla crisi di legittimazione del sistema politico il ragionamento appare crudo: non esistono a tutt’oggi in Italia istituzioni forti, simili a quelle gaulliste; non esistono partiti sufficientemente strutturati, mentre il riallineamento del sistema partitico è ancora ampiamente in alto mare.

Alla base di un simile ragionamento, che coinvolge molti esponenti del gruppo dirigente dell’Ulivo (ma sopratutto dei DS), si pone sopratutto la necessità di una rilegittimazione del sistema politico, attraverso la costituzione di nuovo partito, innovando formalmente dal basso un percorso che nel 1997 era stata proposto attraverso la sostanziale “rottura” della Costituzione sulla base del referendum popolare previsto dalla legge costituzionale n. 1 di quell’anno.

A questa posizione corrisponde in altri settori del ceto politico una omologa esigenza di superare l’impasse attraverso forzature dei veti incrociati, provvedendo alla creazione di nuovi soggetti politici. A destra si richiede il partito moderato; a sinistra il partito socialdemocratico, prefigurando strategie contraddittorie che vanno dal bipolarismo al multipolarismo. Gli strumenti per pervenire a simili obbiettivi non costituiscono, tuttavia, soltanto questioni di arredamento della “casa comune” , ma investono le stesse strutture dell’edificio. Qui si fuoriesce dall’ambito strettamente politico, per coinvolgere direttamente il testo della Costituzione vigente, la sua interpretazione, la modificazione delle sue stesse strutture anche attraverso le regole elettorali.

 


3. Il contesto di lungo e di medio periodo

Si potrebbe dire che non c’è nulla di nuovo e che si tratta di un ulteriore capitolo della transizione infinita che investe l’Italia dalla fine degli anni Sessanta e che ha avuto il suo primo capitolo incisivo al di fuori del quadro politico-istituzionale tradizionale all’inizio degli anni Novanta. Dal punto di vista storico si potrebbe affermare che ci si trova davanti alla persistenza di una tendenza di lungo periodo della critica al cosiddetto parlamentarismo, con l’aspirazione alla formazione del partito democratico e a quello conservatore sulla base dell’esempio di altri ordinamenti democratici (V. Solmi 1924).

Una simile osservazione non tiene però conto che il quadro concreto è più preoccupante di quanto non appaia, perché la crisi di ristrutturazione del sistema politico-costituzionale viene iterata in un contesto in cui gli altri ordinamenti europei di democrazia stabilizzata hanno risolto i loro problemi o li stanno risolvendo per via ordinaria. La questione italiana è ancora impantanata e rischia di spazzare anche le regole costituzionali. Il completamento della transizione prefigura – per alcuni – un superamento dell’assetto politico-costituzionale vigente ed evidenzia la contraddizione tra chi pensa che il referendum confermativo fallito dell’anno scorso abbia rilegittimato il sistema e chi invece ripropone una strategia della rottura che sostanzialmente lo delegittima.

È bene ricordare che in Italia – a differenza di altri ordinamenti di democrazia stabilizzata (Giappone, nuova Zelanda) – nel primo lustro degli anni Novanta si è verificata una vera e propria crisi di regime, cui si è connessa una riforma elettorale tendenzialmente maggioritaria. La crisi venne provocata da elementi strutturali accentuati dallo strumento istituzionale referendario. Attraverso l’utilizzazione del referendum abrogativo il circolo vizioso dell’innovazione istituzionale venne interrotto, ma la rozzezza dello strumento non ha favorito né la stabilità né il riallineamento. La legge elettorale del 1993 si è inserita in un panorama istituzionale derivante dalla convenzione proporzionalistica, modificando da un lato gli equilibri di garanzia, provocando dall’altro l’accentuazione di instabilità funzionale derivante dal bicameralismo paritario.
Il mancato riallineamento del sistema partitico, le innovazioni incoerenti e la sfiducia reciproca hanno portato alla approvazione della nuova legge 270 del 2005, che per molti versi può essere definita come lo strumento tecnico che ha transitato l’ordinamento dal piano della elezione a quello della designazione.

È bene riflettere che, dopo circa tre lustri, l’ordinamento costituzionale italiano pare ancora un cantiere confuso, in cui alla frammentazione accentuata si affiancano i tentativi di aggregazione. Sarebbero tutti segni tradizionali di una crisi di inefficienza che, nel quadro europeo sufficientemente stabilizzato, potrebbe far durare il sistema come la III Repubblica, ma le impedirebbe di innovare.

In questo specifico quadro lo strumento riproposto per rompere il circolo vizioso dell’innovazione è ancora una volta il referendum abrogativo,alle cui origini non si pone tanto l’opera di Serio Galeotti, ma quella di Marino Bon Valsassina, costituzionalista antisistema, che lo considerava nel 1966 “come un’arma assai efficace contro la partitocrazia”, capace di emancipare il suffragio universale dalla “mortificante e spesso aberrante tutela” dei “ceti partitanti”.

In questo contesto il referendum elettorale proposto dal Comitato Guzzetta- Segni tenta di rinnovare la spallata del 1993, ma lo fa sostanzialmente all’interno del sistema dei partiti. I referendum proposti uniscono alla brutalità del mezzo un senso fortemente ambiguo: in parte sposano infatti il classico spirito antipartitocratico, in parte invece costituiscono uno strumento di completamento della transizione utilizzato da parte di settori del ceto politico in trasformazione.

 


4. I temi in discussione e i soggetti coinvolti

I poli della discussione sono – dunque – numerosi. Per quanto riguarda natura, funzioni ed evoluzione del sistema elettorale ed uso del referendum faccio riferimento ad alcuni contributi recenti e non mi ripeto. La documentazione sulla dinamica italiana dello strumento referendario è recuperabile sul sito www.parlalex.it. Certo i referendum non sono tutti uguali, né la giurisprudenza della Corte costituzionale è sempre stata lineare in materia.

Per quanto riguarda il primo profilo, tra i più rilevanti referendum alcuni hanno riguardato diritti di libertà, altri hanno coinvolto direttamente il regime. Nel 1978 il referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti venne respinto dal 56,4% dei votanti, nel 1993 i voti contrari furono solo il 9,7%, nel 2000 i proponenti non riuscirono invece a raggiungere il quorum anche se il 71,1% dei votanti si dichiarò favorevole.

Il senso politico dei referendum 2007 è fortemente antipartitocratico e la previsione – in una situazione in cui il maggior successo editoriale del momento è il volume su La casta di Rizzo e Stella – è che il risultato sia quasi scontato, come sparare sulla Croce rossa.

Meno scontato è invece l’esito sotto il profilo giuridico, mentre gli effetti a me paiono travisati da un “duvergismo talebano”, che caratterizza alcuni settori del mondo politico ed intellettuale italiano.

La Corte costituzionale ha cercato di mettere ordine nei criteri da essa utilizzati in materia referendaria sin dalla sent. 16 del 1978, ma non ha ancora risolto il tema strategico del limite alla manipolatività dello strumento, anche se accenni interessanti possono essere recuperati dagli anni Novanta in poi.

Sul piano specifico dei referendum elettorali a me sembra che la Corte non possa rimanere inerte di fronte al continuo ridisegno delle regole e – sopratutto – che essa debba iniziare a prendere in considerazione anche problemi sostanziali di compatibilità della normativa di risulta con l’ordinamento costituzionale.

5. I quesiti referendari del 2007

Mi soffermo dunque sui quesiti referendari del 2007, su cui si incentrerà la discussione di oggi.

I quesiti proposti sono tre ed investono la legge 270 del 2005. È opportuno concentrarsi sui primi due, perché il terzo (nonostante le riserve sul suo carattere manipolativo) risulta meno problematico, tendendo alla abrogazione delle candidature multiple. Il 1° e il 2° quesito si propongono, infatti, di abrogare il collegamento tra liste e la possibilità di attribuire il premio di maggioranza alle coalizioni di liste. Dalla normativa di risulta, derivante dal ritaglio referendario, il premio di maggioranza viene attribuito alla lista singola (escludendo l’ipotesi della coalizione di liste) che abbia ottenuto il maggior numero di seggi, mentre per ottenere rappresentanza parlamentare le liste debbono comunque raggiungere un consenso del 4% alla Camera e 8% al Senato.

Ne consegue che la lista più votata ottiene, dunque, il premio di maggioranza previsto (qualunque sia il numero di voti dalla stessa), mentre le liste minori recuperano comunque una rappresentanza adeguata, purché superino lo sbarramento. A detta dei promotori il sistema elettorale risultante dal referendum dovrebbe spingere gli attuali soggetti politici a costituire un unico raggruppamento, nell’ambito di una prospettiva tendenzialmente bipartitica. La frammentazione si dovrebbe ridurre drasticamente, così come la litigiosità infracoalizionale.

A me sembra che le riserve giuridiche e tecniche sui quesiti proposti siano molteplici ed enunzio le principali.

5.1 – In primo luogo non si è sufficientemente riflettuto se nel testo costituzionale possano rilevarsi limiti impliciti alla selettività ed alla manipolatività del meccanismo elettorale rispetto al principio di eguaglianza. Questo argomento venne approfondito come è noto in maniera funzionale alla polemica degli anni Cinquanta da Carlo Lavagna, il quale sviluppò una serie di ragionamenti sistematici. Nel periodo successivo agli anni Settanta la crisi progressiva della “convenzione proporzionalistica” ha eliminato il tabù della riforma elettorale, ma non ha contribuito a considerare quali siano gli standard minimi del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi compatibili con i supremi del nostro ordinamento.

Lavagna sostenne, nella temperie del 1952-53, che le leggi elettorali “in quanto leggi ordinarie di rilevanza costituzionale, debbono in modo particolarmente rigoroso adeguarsi alla Costituzione” (RTDP, 1952, p. 851). Di recente Pizzorusso ha sostenuto che “la materia elettorale non è esente dall’inquadramento in base ai principi generali dell’ordinamento giuridico, ed in particolare in base ai principi costituzionali” (Astrid). È evidente che la tesi di Lavagna di una costituzionalizzazione della proiettività del sistema elettorale non può essere assolutizzata e che lo stesso Lavagna e più decisamente Mortati avevano nel tempo cambiato posizione.

L’adozione del principio maggioritario è dato incontroverso degli ordinamenti democratici, ma lo stesso non può espandersi senza limite. Il meccanismo elettorale può – infatti – essere forte o debole sulla base della selettività della combinazione dei fattori che lo compongono. È però evidente che dubbi sull’applicazione di meccanismi forti si pongono quando il principio maggioritario insito nel premio venga applicato in collegio unico nazionale, per di più nell’ambito di una polverizzazione della rappresentanza e di un divieto di coalizione, in favore della formazione che abbia ottenuto la maggioranza semplice dei voti.

In merito al contemperamento tra esigenze di rappresentatività e di stabilità ed efficienza a me sembra che – senza altro commento in questa sede – molto abbia detto – nell’ambito di quel comune tessuto costituzionale europeo – la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht sulla Sperrklausel, in una faticosa ma fattiva evoluzione rispetto a quella weimariana.

5.2 – In secondo luogo la previsione che il premio di maggioranza venga attribuito senza alcuna soglia inferiore a chi abbia la maggioranza relativa evidenzia un premio di rilevanza non ragionevole. Nella tradizione legislativa italiana – non tenendo conto della cosiddetta legge “truffa” del 1953 – lo stesso art. 84-bis. della Legge Acerbo [18 Novembre 1923, n. 2444 (della “Acerbo”) in G.U. n. 283 del 03-12-1923] prevedeva che l’Ufficio centrale nazionale procedesse alla somma di tutti i voti ottenuti dalle singole liste in tutto il regno e, verificata quale fosse, la lista che avesse raggiunto il venticinque per cento dei voti validi ed avesse ottenuto il maggior numero di voti in tutto il Collegio nazionale, attribuisse ad essa i due terzi del numero totale dei deputati, cioè 356, proclamando eletti, in ogni circoscrizione, tutti i candidati contenuti nella lista medesima secondo l’ordine dato dai voti di preferenza ottenuti.

La stessa legge del 1923 prevedeva che “nel caso in cui nessuna lista [avesse raggiunto] il venticinque per cento, si applica[va]no a tutte le liste, nel computo nazionale, le disposizioni stabilite nel n. 3 per le liste di minoranza”. Il che vuol dire che Giacomo Acerbo rischia di essere considerato più garantista di quanto chi ha prodotto la legislazione attuale e quella di eventuale risulta.

5.3 – In terza istanza i due quesiti principali mi sembra possano contrastare con gli stessi criteri utilizzati finora dalla Corte per dichiarare ammissibili i referendum. In effetti se i due quesiti sul premio hanno la stessa finalità, o vengono uniti indissolubilmente (ma ciò non sembra possibile), o altrimenti possono portare a conseguenze distorcenti se – al limite- uno dovesse essere approvato e l’altro no.

5.4 – Tutto questo implica che la Corte non può disinteressarsi degli effetti della normativa di risulta dei referendum abrogativi. Mi domando, in sostanza, se nel giudizio di ammissibilità la Corte non debba valutare anche se con i quesiti proposti non vengano vulnerati principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

La posizione del Comitato promotore su questo tema, infatti, non convince. Esso sostiene che se il meccanismo risultante dall’opera manipolativo-ablativa risulta autoapplicativo, la Corte non può che dichiarare ammissibile il quesito, giustificando ampiamente la posizione di Guzzetta che intende trattare direttamente con il Presidente del Consiglio sulla eventuale modifica della normativa vigente.

Il Comitato lascia intendere, inoltre, che, sulla base dello scopo del quesito, il referendum possa essere trasferito su qualsivoglia testo la rappresentanza parlamentare possa adottare.

Ne viene fuori un vero e proprio “incaprettamento” del sistema da parte del Comitato promotore. A mio avviso, una simile posizione rischia di essere ideologica e pericolosa, perché finisce per identificare un potere senza limiti, dove invece il Comitato e lo stesso Corpo elettorale sono vincolati ai sensi dell’art. 1 Cost. dalle forme e dai limiti della Costituzione stessa sulla base del vaglio operato dall’organo di giurisdizione costituzionale.

In questa prospettiva le competenze della Corte non sono soltanto quelle di verificare l’ammissibilità formale dei quesiti, ma la loro rispondenza sostanziale ai principi ed ai valori costituzionali. A me sembra – dunque – che un meccanismo come quello proposto rischia – dal punto di vista teorico – di vulnerare: in primo luogo il principio di eguaglianza; in secondo quello di ragionevolezza attribuendo un premio eccessivo a chi ottenga una qualsivoglia maggioranza relativa dei voti.

Tutto questo senza prendere in considerazione che il meccanismo prospettato rischia di aggravare le possibilità di ingovernabilità: a) per l’incremento della differenziazione delle maggioranze tra le due Camere; b) per la labilità delle eventuali aggregazioni che vengono prospettate come fine della bipartiticizzazione elettorale.

Un opportuno intervento della Corte potrebbe, dunque, sanare problemi plurimi che affliggono la legge elettorale vigente (Val d’Aosta; premio differenziato tra Camera e Senato).

 


6. Conclusioni

Riassumo la sostanza della contrapposizione tra i sostenitori dei quesiti e chi parla.

In sintesi:

• lo strumento referendario è – a mio avviso – incapace di innovare razionalmente su argomenti così complessi come il tema elettorale;

• le condizioni socio-politiche che giustificano l’utilizzazione di meccanismi così brutali quali quello di un premio nazionale senza quota limite inferiore sono inesistenti;

• lo stesso strumento proposto è inadeguato al raggiungimento delle finalità proposte e più che essere sistemico si dimostra solo un tentativo di riaggregazione delle aree. La riaggregazione in questione avverrebbe solo a livello elettorale, mentre la frammentazione non potrebbe essere evitata a livello parlamentare poiché la semplificazione, avvenuta a livello di liste sulla base di contrattazioni, sarebbe estremamente volatile;

• l’eventuale sottoposizione al Corpo elettorale di due quesiti omogenei per le finalità, ma distinti nella votazione potrebbe comportare il teorico pericolo di una contraddizione tra gli stessi con l’approvazione di uno e la reiezione dell’altro;

• nella frammentazione elettorale esistente il rischio teorico che il premio assuma caratteri irragionevoli è presente, vulnerando il principio di uguaglianza;

• la Corte costituzionale nell’ambito del giudizio di ammissibilità può fare riferimento ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale che verrebbero violati;

• risulta inconsistente l’affermazione che una simile eventualità esiste nella legge vigente, poiché la Corte ne prenderebbe atto solo nel corso del giudizio di ammissibilità;

• qualora la dichiarazione di inammissibilità si riferisce al problema del premio, la Corte potrebbe non soltanto esprimere un monito per la modifica della legge, ma anche considerare che il premio possa essere ragionevole dopo una determinata soglia;

•volendo essere consequenziale la Corte potrebbe pervenire alla stessa ablazione del premio, considerando lo stesso incostituzionale.

INTERVENTI

INTERVENTO DI FRANCO BASSANINI[2]

Gli argomenti contenuti nella relazione del Professor Lanchester, in materia di ammissibilità del referendum parzialmente abrogativo della legge 270 del 2005, sono molto importanti. Personalmente li giudico convincenti, quanto alla identificazione di alcuni vizi di incostituzionalità della legge che risulterebbe dall’approvazione dei quesiti referendari. Ma l’incostituzionalità della normativa risultante dal referendum può essere un motivo sufficiente per dichiarare l’inammissibilità del referendum?

Si è osservato, anche in questa sede, che si tratta di profili di incostituzionalità rinvenibili – tutti o quasi tutti – anche nelle disposizioni della legge 270. Per le ragioni che dirò più avanti, non penso che questa constatazione possa inficiare le conclusioni alle quali Lanchester è pervenuto. Dico subito tuttavia che ad una diversa conclusione si dovrebbe pervenire se la Corte avesse esaminato le stesse censure di costituzionalità con riferimento alla legge 270 e le avesse respinte. Ma la Corte costituzionale non si è mai pronunciata sulla legittimità costituzionale della legge 270, semplicemente perché – come è noto – non è stata finora chiamata a farlo. Dunque ben potrebbero risultare incostituzionali tanto alcune disposizioni della legge 270 quanto alcune disposizioni della normativa elettorale risultante dalla approvazione dei quesiti referendari.

Più seria appare un’altra obiezione, qui prospettata da Ceccanti e Caravita: secondo i quali i profili di incostituzionalità della eventuale disciplina che risulterebbe dall’approvazione dei quesiti referendari non potrebbero essere presi in considerazione, ai fini della declaratoria di inammissibilità di un referendum, come sarebbe dimostrato dal fatto che la Corte non li avrebbe mai considerati fino ad ora. Nei termini presentati dal Professor Ceccanti la questione appare seria. Il fatto invece che la Corte, anni fa, abbia dato torto al professor Caravita, sul punto, mi pare invece meno rilevante; il suo argomento “in fatto” mi pare, anzi, contraddittorio: tant’è che il Professor Caravita stesso ammette di “averci provato”, perché evidentemente anche lui riteneva che vi fossero margini per chiedere alla Corte di rimettere in discussione o di integrare i criteri fino ad allora seguiti, prendendo in considerazione anche gli effetti del referendum sotto il profilo della legittimità costituzionale della normativa che risulterebbe a sèguito della approvazione dei quesiti referendari.

A me pare, tuttavia, che si debba discutere di un problema più rilevante, anzi cruciale, che è sotteso a quello di cui discutiamo qui. Esso potrebbe essere tradotto in questo quesito: può la Corte giudicare della costituzionalità di leggi elettorali? La risposta non è semplice. Le leggi elettorali hanno un forte connotato politico; capisco dunque che riconoscere alla Corte il potere di giudicare la costituzionalità di una legge elettorale è una conclusione che va considerata con attenzione e cautela.

Ma dato che le leggi elettorali disciplinano un meccanismo fondamentale per il funzionamento di una democrazia, io non riesco a convincermi che alla Corte possa essere del tutto precluso di giudicare se una legge elettorale sia coerente con i principi fondamentali, strutturali, della nostra Costituzione. Meglio: non ritengo facilmente accettabile l’ipotesi di una sostanziale sottrazione delle leggi elettorali a qualsiasi vaglio di costituzionalità. Le garanzie costituzionali e i principi dello Stato di diritto verrebbero meno, se così fosse, proprio in uno degli snodi cruciali del sistema democratico. Si dovrebbe ammettere che la democrazia italiana avrebbe rinunciato a difendere i suoi principi strutturali e le sue regole, diversamente da quello che essa fa per gli altri diritti e libertà dei cittadini ed anche per molte altre disposizioni costituzionali di rilevanza incomparabilmente minore. E’ questa una conclusione che non mi pare facilmente accettabile, in assenza di una disposizione costituzionale che espressamente stabilisca l’insindacabilità delle leggi elettorali da parte del giudice della costituzionalità delle leggi.

Aggiungo che il parametro del giudizio della Corte non potrebbe essere rappresentato, in tali casi, dai principi della cosiddetta democrazia immediata o “di mandato”. Al Professor Ceccanti piace molto il modello della democrazia immediata, ad altri piace più il modello della democrazia rappresentativa; ma al di là delle preferenze personali, io credo che ci si debba attenere al dettato dell’articolo 1 della Costituzione, che prevede che la nostra sia una democrazia mista: un mix tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, i cui ingredienti ed equilibri sono nel dettaglio definiti dalla forma di governo e, io aggiungerei, dalla forma di Stato così come esse sono delineate dalla Costituzione. La democrazia diretta si esprime tramite specifici strumenti di partecipazione aventi ad oggetti singole decisioni (iniziativa legislativa, referendum abrogativi, referendum costituzionali, petizioni). Per il resto, il nostro sistema costituzionale adotta, almeno a livello di istituzioni nazionali, il modello della democrazia rappresentativa, con una forma di governo parlamentare. Lo stesso non vale a livello regionale e locale, dove l’elezione diretta dei capi degli esecutivi e il meccanismo “simul stabunt aut cadent” hanno finito con l’introdurre in forma originale elementi propri del modello della democrazia immediata in una forma di governo originariamente ispirata al modello rappresentativo-parlamentare.

Che si possa attraverso una legge elettorale forzare nel senso della democrazia immediata la nostra forma di governo nazionale, senza por mano ad una previa revisione costituzionale, mi sembra insostenibile. Le modifiche relative alla forma di governo o alla forma di stato, quando essa è definita da disposizioni costituzionali, vanno introdotte mediante leggi di revisione costituzionale. Nella XIV legislatura la maggioranza parlamentare ha fatto – come è noto – un tentativo in questo senso, respinto con il referendum costituzionale del 2006. Di quel progetto facevano parte infatti disposizioni tendenti a indirizzare la nostra forma di governo verso un “mix” nel quale gli elementi di democrazia immediata o di mandato venivano consistentemente rafforzati.

Una volta respinto quel disegno di legge di revisione costituzionale, come potremmo ritenere lecito – o anche soltanto ritenere in fatto non sindacabile dalla Corte costituzionale – un nuovo tentativo di modificare la nostra forma di governo introducendo mediante una legge ordinaria, quale è una legge elettorale, innovazioni respinte dal referendum costituzionale? O anche pensare che questo risultato possa essere raggiunto attraverso il combinato disposto di una legge elettorale e di un referendum parzialmente abrogativo?

Questa pare a me la questione centrale. Mi pare superabile invece l’obiezione accennata all’inizio: sicuramente la gran parte se non tutti i vizi di costituzionalità rilevati dalla relazione di Lanchester possono essere rinvenuti anche nelle disposizioni vigenti della legge 270. Ma siamo sicuri che la Corte non possa pronunciarsi sugli uni e sugli altri? Che non possa dichiarare, con riferimento tanto nella legge 270 quanto alla normativa elettorale che risulterebbe dalla approvazione dei quesiti referendari, che l’attribuzione di un premio di maggioranza senza alcuna soglia minima, dunque l’assegnazione della maggioranza assoluta dei seggi a una lista (o a una coalizione) che potrebbe avere ottenuto solo il 20% o il 25% dei voti espressi, contrasta con i principi di struttura del nostro sistema democratico rappresentativo, e con il principio dell’uguaglianza del voto? E dunque comporta la dichiarazione di inammissibilità del quesito referendario che concerne il premio di maggioranza e anche la dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni della legge 270 che tale premio prevedono?

Il Professor Ceccanti ha obiettato che in tal modo si darebbe alla Corte un potere di manipolazione del sistema elettorale non inferiore al potere di manipolazione che ha il referendum, con la differenza che nel referendum è il popolo che decide. Ma l’obiezione non mi pare fondata. La Corte dichiarerebbe soltanto contrastante con il principio democratico della Costituzione l’attribuzione di un premio di maggioranza di proporzioni imprevedibili nell’ambito di un sistema proporzionale che per il resto resterebbe in vita; e che peraltro potrebbe essere liberamente modificato, successivamente, dal legislatore ordinario.

L’obiezione di Ceccanti, d’altronde, potrebbe essere anche rinviata al mittente. Siamo sicuri, infatti, che nel referendum Guzzetta-Segni, il quesito sul premio di maggioranza sia formulato in modo sufficientemente preciso e perspicuo da consentire al corpo elettorale una libera decisione, senza il rischio di manipolazioni? E così certa l’ammissibilità del referendum alla luce dei criteri enunciati dalla Corte circa la chiarezza e l’univocità del quesito referendario?

Il dubbio è lecito. Basterebbe vedere come il referendum è presentato sui media, dove noti e autorevoli commentatori sono quotidianamente impegnati a sostenere che l’esito positivo del referendum condurrebbe al bipartitismo, e comunque a una drastica riduzione della frammentazione partitica, e darebbe luogo a maggioranze parlamentari omogenee e coese. Sappiamo bene che non sarà così. La disciplina elettorale che risulterebbe dalla approvazione dei quesiti referendari non contiene (non poteva contenere) infatti alcun divieto né introduce alcun limite alla successiva riframmentazione dei partiti che avranno contribuito a formare i due “listoni”, a loro volta definiti attraverso contrattazioni tra le segreterie dei partiti. Il premio di maggioranza, attribuito a turno unico e senza una soglia minima, costringerà i partiti maggiori a imbarcare nei due listoni tutte le formazioni politiche, anche le più piccole, pena la sconfitta elettorale. Per di più, la normativa risultante dalla approvazione dei quesiti referendari, non contiene alcun rimedio al meccanismo dei premi di maggioranza regionali che rende di fatto ingovernabile il Senato. Né offre un rimedio alla sostanziale espropriazione del diritto degli elettori di esprimere scelte anche sulle persone dei candidati. Ciononostante, la propaganda del comitato referendario, amplificata da commentatori tanto autorevoli quanto incompetenti, tenta di far credere agli elettori che l’approvazione dei quesiti referendari possa conseguire tutti questi risultati.

E dunque: mediante una scelta influenzata dalla scarsa chiarezza del quesito e dalla distorta informazione sugli effetti del voto referendario si potrebbe giungere ad affermare come legittimati e consolidati dal popolo sovrano proprio gli elementi del nuovo sistema elettorale che sollevano – come la relazione di Lanchester ha dimostrato – più evidenti censure di incostituzionalità. Tali censure, peraltro, non sono stati mai sottoposte al giudizio della Corte costituzionale, per le ben note ragioni che rendono assai difficile ipotizzare un giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi elettorali, al di fuori, per l’appunto, del giudizio di ammissibilità di un eventuale referendum abrogativo in materia: è in tal sede, allora, che la Corte dovrebbe prendere in considerazione – accanto agli eventuali vizi di costituzionalità della normativa di risulta – anche i vizi di costituzionalità della disciplina che verrebbe parzialmente abrogata dal referendum. Se così non fosse, peraltro, il referendum abrogativo finirebbe per trasformarsi di fatto in un referendum parzialmente confermativo, rilegittimando, con i pochi ritocchi apportati dai quesiti referendari, una legge elettorale da tutti (o quasi) criticata.

Emerge qui una sostanziale incoerenza dei promotori del referendum. Da una parte essi sono tra coloro che giudicano la legge 270 assolutamente pessima sotto tutti i profili accennati: l’ingovernabilità del Senato, l’espropriazione del potere di scelta degli elettori riguardo alle persone dei candidati, l’incentivo alla frammentazione partitica e alla costituzione di coalizioni vaste ma disomogenee, la dissoluzione del rapporto di rappresentanza tra l’eletto e la comunità territoriale che lo ha votato. Sotto tutti questi profili, la legge n. 270/2005, , la bozza Calderoli e la bozza Chiti non sono che delle varianti di un medesimo sistema elettorale: tutt’e tre presentano i medesimi difetti fondamentali. Ma lo stesso si può dire della legge n. 270 come verrebbe modificata a seguito di eventuale approvazione dei quesiti referendari. Tutt’e quattro per esempio prevedono l’attribuzione di un premio di maggioranza, e così si espongono ai rilievi di incostituzionalità prospettati da Fulco Lanchester: perchè non è prevista alcuna soglia minima; perché costringono i partiti a formare due coalizioni omnibus, funzionali alla vittoria elettorale ma assolutamente inidonee alla successiva attività di governo; perchè configurano una democrazia dell’alternanza fasulla, perché basata su coalizioni carenti di omogeneità politica, frammentate e contraddittorie al loro interno. Tutt’e quattro i sistemi, infine, privano gli elettori di qualunque potere non solo di scegliere gli eletti, ma perfino di pronunciarsi in qualche modo sulle persone dei candidati, valutando le scelte dei partiti al riguardo (è la conseguenza del fatto che tutt’e quattro i sistemi si basano sul voto in blocco di liste composte da numerosi candidati). Tutt’e quattro i sistemi, conseguentemente, sradicano il rapporto diretto tra eletti e territorio, che è proprio invece di tutte le democrazie rappresentative moderne.

Dunque, se fossero coerenti con le loro valutazioni critiche della legge 270, i promotori del referendum dovrebbero sostenere non le modeste correzioni apportate dai quesiti referendari, che finirebbero per rilegittimare una legge oggi da tutti considerata pessima, ma sistemi elettorali radicalmente alternativi, quali quelli utilizzati nelle maggiori democrazie europee; o dovrebbero, in alternativa, sostenere l’opportunità di un ritorno alla legge Mattarella. Per il quale – come è noto – è stato prospettato anche un percorso referendario.

Certo, se la legge Mattarella garantisce risultati comunque migliori rispetto alla legge 270, alla luce dei criteri or ora enunciati, migliore ancora appare, alla luce degli stessi criteri, il rendimento del sistema uninominale a doppio turno secondo il modello francese, così come quello del sistema proporzionale senza ripartizione nazionale dei seggi in uso in Spagna, o quello del sistema proporzionale misto con sbarramento nazionale al 5% in uso in Germania. Ma la legge Mattarella ha comunque garantito l’alternanza democratica, ha accompagnato l’evoluzione del sistema politico italiano in senso bipolare, ha assicurato un rapporto reale fra gli eletti e il territorio grazie al collegio uninominale e, per la stessa ragione, ha costretto i partiti a fare i conti con le preferenze dell’elettorato nella scelta dei candidati al Parlamento. Con una “piccola riforma” (quale l’introduzione del doppio turno per l’assegnazione dei seggi nei collegi uninominali), la legge Mattarella avrebbe potuto offrire un rendimento assai convincente. Del suo mediocre rendimento porta peraltro grande responsabilità, più che il sistema elettorale da essa adottato, un fattore esterno: e cioè la convivenza del sistema prevalentemente maggioritario da essa introdotto in Italia con sistemi proporzionali senza significative clausole di sbarramento per le elezioni europee, e per le elezioni dei consigli regionali, comunali, provinciali e di circoscrizione. Benché costretti a coalizzarsi ogni cinque anni per le elezioni politiche nazionali, i partiti italiani sono stati dunque indotti a marcare le loro identità e a competere fra loro accanitamente per gli altri quattro anni di ciascun quinquiennio, secondo la logica propria dei sistemi proporzionali.

Il ritorno alla legge Mattarella può dunque rappresentare una delle vie praticabili per “azzerare” (realmente e non solo a parole, come farà il referendum Guzzetta) la “porcata” di Calderoli; e per riaprire la strada a un confronto senza pregiudizi sulla questione cruciale: quale riforma elettorale può servire davvero a migliorare il funzionamento della democrazia italiana. La strada maestra per il ripristino della legge Mattarella – magari solo pro tempore, in attesa che il predetto confronto dìa qualche risultato utile – è certamente la via parlamentare. E’ infatti senz’altro vero quanto osservato da Lanchester in apertura di questo seminario, a proposito della difficoltà di utilizzare lo strumento referendario per modificare una normativa delicata come quella elettorale, caratterizzata da un’elevata complessità: tanto che, com’è ben noto, le leggi elettorali erano state originariamente escluse, in sede costituente, dal novero di quelle per le quali può essere proposto un referendum abrogativo. Non sembra esserci tuttavia una maggioranza favorevole al ripristino per via parlamentare della legge Mattarella.

Potrebbe soccorrere lo strumento referendario? Sotto il profilo politico-istituzionale, il ricorso allo strumento referendario si appoggerebbe su forti motivazioni: la legge Mattarella non fu infatti solo il prodotto della decisione di una maggioranza parlamentare, ma prima ancora del referendum popolare del 1993 (anche in virtù del successivo autorevole invito, rivolto dal Capo dello Stato al Parlamento, a scrivere la riforma “sotto dettatura del popolo sovrano”); la legge 270 ha abrogato dunque una legge che aveva il suo fondamento nella diretta espressione della volontà popolare; offrire al corpo elettorale lo strumento per esprimere il suo consenso o il suo dissenso rispetto a questa decisione sembrerebbe coerente con il principio sancito dall’articolo 1 della Costituzione.

Sotto il profilo giuridico-costituzionale, occorre tuttavia fare i conti con il principio interpretativo affermato – per ben note e comprensibili ragioni – dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale quanto alla inammissibilità di referendum interamente abrogativi di una legge elettorale, in quanto essi provocherebbero un temporaneo vuoto normativo colmabile solo da un nuovo intervento del legislatore. Ciò considerato, appare dunque cruciale la risposta ad un delicato quesito: se l’abrogazione referendaria della legge 270 produca o meno la automatica riviviscenza della legge Mattarella da essa abrogata. Solo in caso di risposta positiva a questo quesito si potrebbe pensare ad un referendum abrogativo della legge 270 che non produrrebbe vuoti normativi, pur rinviando di fatto al legislatore il compito di costruire – con il bulino e non con l’ascia – una nuova legge elettorale; ma dopo avere “riportato le lancette dell’orologio” indietro fino al momento nel quale un colpo di mano della maggioranza parlamentare ha azzerato una legge elettorale (la Mattarella) che era pur sempre stata approvata a larga maggioranza dalle Camere e che era solidamente fondata sul voto della larga maggioranza del corpo elettorale espresso nel referendum del 1993: da lì facendo dunque ripartire il lavoro del legislatore per la creazione di una legge elettorale che renda più moderna e più forte la democrazia italiana.

Personalmente ho a lungo dubitato della possibilità di dare una risposta positiva al quesito or ora ricordato, partendo dall’assunto per il quale l’abrogazione di una legge non fa rivivere le leggi da questa eventualmente abrogate. Di recente tuttavia questo assunto è stato autorevolmente messo in discussione (da Alessandro Pizzorusso, e anche da Andrea Giorgis e da Marco Olivetti). Meriterebbe dunque verificarne la solidità, innanzitutto valutandone la consistenza logica e il fondamento normativo, e accertando se si tratta di una regola ermeneutica effettivamente e costantemente applicata in passato. Re melius perpensa, sono peraltro propenso a ritenere che, anche qualora questa verifica desse esito positivo (e dunque si debba riconoscere che, in generale, l’abrogazione di una legge non produce la reviviscenza delle leggi da quest’ultima abrogate), resterebbero comunque da valutare due questioni: se tale regola valga anche nel caso di abrogazione disposta per via referendaria o non valga invece solo nel caso di abrogazione disposta per atto legislativo; se tale regola valga anche nel caso di abrogazione referendaria parziale, limitata alle sole disposizioni abrogatrici contenute nella legge oggetto del referendum.

Quanto alla prima delle due questioni or ora accennate, osservo sommessamente che (specie nei casi nei quali il referendum subisce il vincolo derivante dal divieto di creare vuoti normativi) si potrebbe sostenere che, l’effetto reviviscenza sia giustificato dalla impossibilità del titolare del potere abrogativo (il corpo elettorale) di raggiungere altrimenti il risultato voluto (e cioè quello di abrogare l’abrogazione), a differenza di quello che il legislatore parlamentare può fare, associando alla disposizione abrogativa di una disposizione di legge vigente una norma che disponga espressamente la reviviscenza delle norme da questa abrogate. Quanto alla seconda delle questioni accennate, osservo che un referendum abrogativo limitato alle disposizioni “abrogatrici” da un lato renderebbe esplicito e inequivocabile l’intento di produrre la reviviscenza delle disposizioni previgenti, dall’altro toglierebbe di mezzo solo ed esclusivamente le disposizioni che hanno prodotto la abrogazione delle norme che si vogliono far rivivere. In entrambi i casi, la reviviscenza delle norme previgenti abrogate appare nitidamente come coerente con la natura “oppositiva” del referendum abrogativo.

Aggiungo che un referendum che abbia ad oggetto la abrogazione delle disposizioni abrogatrici della legge Mattarella potrebbe ben essere celebrato contestualmente al referendum Guzzetta-Segni. A tal fine, sarebbe sufficiente che, nel corso del mese di settembre, cinque consigli regionali provvedessero a deliberare la richiesta di referendum abrogativo delle specifiche disposizioni della legge 270 che hanno disposto l’abrogazione (o la “sostituzione”) delle norme del Testo Unico che riproducevano le disposizioni della legge Mattarella. Si offrirebbe così al corpo elettorale uno strumento abrogativo della legge 270 assai più nitido e radicale del referendum Guzzetta-Segni; e non si correrebbe il rischio di contrabbandare, dietro il paravento di una abrogazione parziale, una sostanziale rilegittimazione delle norme fondamentali di una legge elettorale che (almeno a parole) tutti hanno criticato.

INTERVENTO DI ROBERTO BORRELLO[3] (non rivisto dall’autore)

Sono venuto in questo seminario essenzialmente per ascoltare, vista l’autorevolezza di coloro che mi hanno preceduto tra presidenti emeriti, giudici emeriti, ordinari di vecchia data, insomma parlo da scolaro che ha ascoltato e quindi adesso svolgo qualche brevissima considerazione. I valori in gioco sono quelli della eguaglianza tra i partiti, garantita dagli articoli 3 e 49, dall’eguaglianza del diritto di voto, da parte dei cittadini elettori, sul piano della sua capacità di tradursi aritmeticamente in seggi. Perché i due elementi che vengono corretti in senso peggiorativo sul piano della rappresentatività, migliorativo sul piano dell’efficienza, da parte del referendum, evidentemente incidono su questi due principi, su questi due valori. La Corte nel 1998 ha detto, con la sentenza 356 del 1998, che eventuali correttivi al modello proporzionale, e dette anche scelte in senso maggioritario, o come in questo caso “correttivi” soprattutto al sistema proporzionale, non incidono tanto sulla parità di condizione dei cittadini, e sull’eguaglianza del voto, che non si estenda al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore, rimessa ai meccanismi del sistema elettorale determinati dal legislatore. E’ ovvio che però questa discrezionalità del legislatore non può essere illimitata. Deve essere sottoposta al sindacato di ragionevolezza e, per quella che è la mia impressione, mentre l’aumento sostanziale della soglia di sbarramento che attraverso l’ombrello protettivo della coalizione leva l’ombrello protettivo ai partiti più piccoli che con solo il 2% alla camera e il 3% al Senato sono in grado di acquisire seggi, mettendosi sotto questo ombrello protettivo della coalizione, invece li costringe ad esporsi fino al 4%. Però questo tutto sommato anche tenendo conto di queste indicazioni della corte, la stessa giurisprudenza della corte tedesca che più volte, per esempio ha censurato il 5% all’epoca della riunificazione tedesca proprio perché era irragionevole in relazione alle forze politiche provenienti dall’est che venivano penalizzate da questo eccessivo sbarramento, tutto sommato, mi sembra che, per quanto riguarda il lato dell’aumento eccessivo della soglia di sbarramento esso possa essere ragionevole. Invece, condivido in questo coloro che mi hanno preceduto, l’aspetto del premio di maggioranza mi sembra effettivamente irragionevole soprattutto per la mancanza della soglia minore. A questo riguardo, proprio il più evocato Lavagna, il quale nella sua fase finale, diciamo quella più moderata, diceva che un limitato premio di maggioranza in verità potrebbe essere anche ammesso secondo la nostra costituzione, nella quale c’è vero il principio della proiettività della rappresentanza delle minoranze, ma c’è anche il principio, proprio di tutti i sistemi, della funzionalità della organizzazione di governo. Ma se questo premio fosse troppo elevato, o fosse attribuito a maggioranze molto relative allora esso verrebbe a deformare il sistema rendendolo incostituzionale e forse illecito. Forse questo è il segnale, o comunque il parametro a cui attenersi per valutare la ragionevolezza del premio di maggioranza. Ora la sede in cui far valere questo eventuale, io francamente sono un po’ perplesso che questo si possa far valere in sede di ammissibilità, nonostante mi sembra, sì, al di là delle luci ed ombre, giustamente messe in luce da molti nella non proprio univocità della giurisprudenza della Corte, però mi sembra che su due aspetti della normativa di risulta, della auto-applicatività e dell’aspetto della coerenza con i principi, anche se qualcuno come Pinelli ha messo in luce che questa coerenza poi non sia massima, però ho la sensazione che in sede di ammissibilità, proprio del giudizio in sé, non possano essere fatti valere questi qui. Però invece mi sembrano suggestivi e interessanti le considerazioni di Augusto Cerri circa la possibilità di sollevare la questione o in sede di ufficio centrale per il referendum o in sede di Corte costituzionale, nel momento in cui applica le norme del giudizio di ammissibilità

 

INTERVENTO DI PIERO ALBERTO CAPOTOSTI[4] (non rivisto dall’autore)

Innanzitutto mi scuso per essere arrivato in ritardo, quindi non ho sentito né la relazione del prof. Lanchester, né gli interventi di tutti coloro che mi hanno preceduto.

La relazione di Lanchester in parte la posso intuire, perché qualche scambio di idee a riguardo lo abbiamo avuto, gli altri interventi non li ho sentiti, chiedo scusa. Penso di potermi far perdonare facendo un intervento molto breve.

Punto primo. È una premessa. Io personalmente ho fortissime perplessità – ed adopero un eufemismo – su questo referendum elettorale. Non credo che sia la panacea che risolve i problemi, anzi li aggrava, perché se l’esito del referendum fosse positivo li santificherebbe e li congelerebbe per cui sarebbero immutabili e i difetti corposi che ci sono nell’attuale normativa verrebbero bloccati.

Però se questo è il mio modestissimo pensiero sull’opportunità del referendum, tuttavia non credo, e questo come forse diceva prima Augusto Cerri dovrebbe essere il profilo giuridico, che l’ammissibilità del referendum possa essere impedita dalla Corte costituzionale. Potrebbe essere anche in astratto auspicabile; è inutile che dica come ci siano tanti strumenti per impedire, legittimamente ovviamente, un referendum già indetto fino a prima dello svolgimento. Lo strumento ipotizzato da qualcuno della pronuncia di inammissibilità da parte della Corte a mio avviso è uno strumento non utilizzabile. Questa non è una prognosi, ma si basa su quello che la Corte fino ad oggi ha fatto. Certo nulla impedisce che la Corte possa cambiare opinione, né prenderemo atto e imparerò qualcosa di nuovo. Però possiamo fare delle previsioni tenendo conto delle esperienze passate. È vero come qualche collega ha giustamente detto, che la Corte in materia di referendum, è un’affermazione ricorrente in dottrina e secondo me condivisibile, proprio perché ci sono state una serie di pronunce, completezze, omogeneità e il potere di omogeneità lo sapete meglio di me a quanti avanti e indietro ha dato luogo. Però nell’ambito dei referendum, quelli in materia elettorale sono stati, a mio modesto avviso, i meno ambigui e i più chiari; sui referendum sulle altre materie io condivido tutto quello che è stato detto, nel senso che non c’è una linea giurisprudenziale ben assestata (anche se un minimo c’è), però sui referendum in materia di legge elettorale direi che una certa linea si può rintracciare. Qui, è stato già detto prima di me, il criterio dell’autoapplicabilità è uno dei criteri principe. E’ inutile che nasconderlo, certo anche qui ci sono stati degli ondeggiamenti, però quando la stessa Corte in certi casi dice che è ammissibile la manipolatività del quesito, purché si raggiunga l’obiettivo dell’autoapplicabilità, in un certo senso sembra quasi dire che “il fine giustifica i mezzi” e il fine è quello, poiché sono leggi costituzionalmente necessarie, che non possono essere abrogate.

Qui apro una parentesi sull’altra questione circa la possibilità che un quesito referendario abroghi totalmente questa legge elettorale, facendo rivivere il cosiddetto “Mattarellum”. A mio avviso andrebbe sicuramente incontro, sempre basandoci sul passato, ad una pronuncia di inammissibilità, perché la Corte è stata chiara nel dire che essendo una legge costituzionalmente necessaria deve essere ed è indefettibile, perché l’organo Parlamento è indefettibile; non si può ammettere un’abrogazione totale di una legge elettorale, a prescindere dal problema teorico delle reviviscenza di una legge elettorale già abrogata. Quindi secondo me quel tentativo che io ho letto sui giornali, è un tentativo forse acuto sul piano politico, ma sul piano giuridico ho delle perplessità ancora più forti di quelle sul referendum.

Tornando, però, al nostro discorso si dice certo che la Corte può effettuare un sindacato sui profili di costituzionalità della normativa residua o di risulta. Tutto è possibile, però mi sembra che non sia mai stato fatto un sindacato del genere; anche perché se noi andiamo a leggere le decisioni in materia, sono decisioni abbastanza scarne non tormentate e anche, ho l’impressione, che le questioni in materia elettorale non raggiungano certi livelli di drammaticità che forse su altri argomenti referendari possono essere raggiunti e che appaiono dalle stesse decisioni. Quando la Corte costituzionale in relazione al referendum del 1993 ha detto, che anche se ci sono degli inconvenienti formali (lì c’erano pezzi di frasi altro che inconvenienti formali, che non si sapeva come sistemare!) non sono impedienti, perché in realtà sono inconvenienti tecnici sostanzialmente autoapplicativi. Qual è il criterio? Il criterio è che sia autoapplicativo, ossia, come è stato detto alcune volte, il giorno dopo che viene sciolto il Parlamento con questo sistema elettorale si possa procedere alle elezioni, cioè non c’è bisogno dell’interpositio legislatoris.

Questo è il criterio che, a mio parere, si desume dalle pronunce.

Pur potendosi ipotizzare l’esistenza di un sindacato di ragionevolezza sul punto – intendendosi per tale che sarebbe irragionevole attribuire un premio di maggioranza così corposo ad una lista che ha raccolto soltanto il 15% o il 20% dei consensi – c’è da notare, tuttavia, che la Corte normalmente non lo ha mai operato. Ora, facendo riferimento al caso di specie ed ipotizzando che la Corte voglia operare questo sindacato, bisogna tuttavia tenere in considerazione la legge attualmente in vigore, quella “abroganda” per così dire. Essa contiene il principio per cui la coalizione o la lista che abbia preso il maggior numero di voti riceve un premio. Orbene, se la Corte dovesse sostenere che questo è irragionevole e, quindi, illegittimo e da ciò desumere l’inammissibilità del quesito referendario, avrebbe con ciò sostenuto che nel nostro ordinamento c’è una legge elettorale che si ispira, sia pure in parte, allo stesso principio che alla coalizione o alla lista elettorale che sia risultata vincitrice venga conferito un premio di maggioranza. Se per avventura, e ragionando in astratto, alle prossime elezioni non ci fossero coalizioni, per esempio per la presenza di due “listoni”, ed essi si presentassero con il vecchio sistema dichiarato irragionevole dal punto di vista normativo, nessuno potrebbe dir nulla: è una conseguenza paradossale!

Fra l’altro, la Corte è stata molto attenta a non “giocare” su queste questioni. Invero, c’è stato un caso relativo alla provincia di Trento o Bolzano (non ricordo esattamente) in cui si affrontava questo concetto del maggioritario o meno, ma ricordo anche gli ultimi quesiti degli anni 1999 e 2000 – non “scattati” per mancanza di quorum – in cui c’era la richiesta di eliminare il 25% di quota proporzionale al fine di spostare il tutto sul sistema uninominale maggioritario. Anche queste si presentavano come proposte piuttosto “forti” eppure, che io sappia, non vi è stato nessun sindacato al riguardo, pur trattandosi nella circostanza di proposte volte a sovvertire un sistema elettorale misto – seppur, come sostiene la dottrina, “tendenzialmente maggioritario” – in un sistema totalmente maggioritario.

Volendo concludere – senza pretendere in questa fase di approfondire ulteriormente i singoli punti e riservandosi, come già anticipato da Franco Bassanini, di poter operare un maggior approfondimento fra qualche tempo – in base ai precedenti della Corte io mi sentirei di escludere che la stessa possa dichiarare inammissibile il quesito in oggetto, motivando che la normativa di risulta sarebbe irragionevole sotto il profilo enunciato. Né – ribadendo comunque che io non parto da una premessa pro referendum – mi sembra che ci sia un problema di poca chiarezza o di manipolatività. Su tale punto ne abbiamo viste parecchie e molto corpose, soprattutto in relazione a referendum riguardanti altre materie. In questo caso, a dir la verità, il “taglia e cuci” mi sembra che funzioni piuttosto bene, per merito sia dei promotori, sia della struttura lessicale delle norme, che casualmente ha consentito di realizzare un’operazione di tal fatta. Insomma, il quesito si presenta poco manipolativo, tenuto presente che tutta la normativa dall’essere riferita alla coalizione o alla lista passa ad essere riferita solamente a quest’ultima.

A coloro che affermano la tesi dell’inammissibilità mi sento di poter dire che vi sono poche aspettative in tal senso e ciò, ribadisco, in base alla giurisprudenza passata e consolidata. Sul futuro non posso ancora esprimermi.

Grazie.

INTERVENTO DI BENIAMINO CARAVITA[5] (non rivisto dall’autore)

L’attuale legge elettorale è bruttissima.

Certo, non solo e non sempre per le cose che sono state dette, e sicuramente non tutte le colpe sono della legge elettorale, ma rimane il fatto che è bruttissima.

Però il risultato del referendum è ancora peggio perché questo referendum potenzia e moltiplica i dati negativi della legge elettorale – fondamentalmente sistema maggioritario di schieramento senza preferenze e sistema basato su premio di maggioranza – che non sono per nulla eliminati dal referendum, ma anzi sono addirittura potenziati.

Questo è il mio giudizio sui due dati normativi che però non è il giudizio sull’ammissibilità del referendum, il quale giudizio va dato alla luce di una ventina di anni di giurisprudenza, di una linea di giurisprudenza tutto sommato abbastanza consolidata e netta, che si è creata in particolare su i referendum elettorali a metà degli anni ottanta e poi consolidata con la sentenza del 1991. Infatti la Corte dalla sentenza del 1991 non ha mai modificato la propria linea e l’ha ulteriormente precisata con la sentenza 13 del 1999, la quale si richiama in un punto cruciale alla sentenza 36 del 1997.

Tra l’altro permettetemi di ricordare un piccolissimo particolare: nel 1995 e nel 1997, in un caso con chi poi divenne giudice costituzionale nell’altro caso con Motzo e mi sembra Federico Sorrentino, io provai a far cambiare giurisprudenza alla Corte e la Corte non la modificò.

Allora quali sono i parametri di questa giurisprudenza che dobbiamo assumere nel giudicare dell’ammissibilità del referendum?

Ce li dice in maniera estremamente chiara la sentenza n. 13 del 1999 – il cui relatore, il presidente Chieppa, è qui presente e quindi se poi riterrà ci dirà qualcosa anche lui – nella quale la Corte dice che: “il quesito è formulato in modo da poter realizzare l’abrogazione della legge elettorale nei sensi su indicati e insieme a far sì che la normativa residua, quella cioè risultante dopo l’eventuale abrogazione, sia immediatamente applicabile consentendo la rinnovazione in qualsiasi momento dell’organo rappresentativo”.

Quindi la prima condizione è la auto-applicabilità.

Mentre la seconda condizione non è la ragionevolezza del risultato – attenzione – la seconda condizione si evince da questo passaggio della 13 del 1999 : “le anzidette considerazioni consentono altresì di escludere che il referendum in esame abbia carattere manipolativo o surrettiziamente propositivo. Esso, infatti, abrogando parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore, per ciò che attiene alla ripartizione del 25% dei seggi, non la sostituisce con un´altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire – e qui cita direttamente la 36 del 1997 su cui spenderò una parolina –ma utilizza un criterio specificamente esistente, sia pure residuale, e rimasto in via di normale applicazione nella specifica parte di risulta della legge oggetto del referendum”.

Allora io applico questa giurisprudenza, perché io questo devo fare in sede di giudizio di ammissibilità. Poi dopo, cambiamo la forma di governo, una legge elettorale più bella, più intelligente, più saggia, più distorsiva, meno distorsiva, ma la Corte questo farà: piglierà la 13 del 1999 e verificherà l’ammissibilità del quesito referendario alla luce della sua consolidata giurisprudenza (e io auspico che nessuno voglia premere per far cambiare la giurisprudenza alla Corte, e questo esula da vicende dei giorni pregressi; non ha nessuna relazione).

La Corte dunque applicherà questi due criteri, e che cosa dirà? Che la normativa è immediatamente applicabile e che quindi se si va al voto si può ri-votare e che il referendum elimina una possibilità – quella del dare il premio alle coalizioni di lista – e lascia in piedi una normativa presente nel testo, il premio alle liste.

È brutto. Ma sull’“è brutto”, “non ci piace, “non ci torna”, “non lo voglio”, “la minestra non mi piace”, io non posso che ricordare quello che ha detto prima il professor Ceccanti citando il punto 5 della sentenza 32 del 1993, vale a dire che la normativa di risulta può dare luogo a inconvenienti più o meno gravi. Io nel 1992 provai a potenziarli questi inconvenienti, scrissi una cosa in cui facevo vedere come veramente il risultato rischiava di essere incostituzionale, e la Corte disse: “fa niente, queste cose le potrà cambiare il legislatore”, che potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua.

Questi principi sono confermati non solo nelle sentenze sui referendum delle elezioni di Camera e Senato ma anche nelle sentenze sui referendum degli organi elettorali locali nonché nelle elezioni del CSM, infatti per quanto riguarda il CSM la sentenza n. 34 del 2000 esplicitamente dice: “è diretto ad abrogare parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore senza sostituire ad esso una disciplina estranea al contesto normativo”. Abrogazione parziale e non costruzione di una nuova norma quindi, che vengono enunciati in materia di elezione politica – Camera e Senato, in materia di Comuni e Province, in materia di CSM.

Cosa è che non può fare il referendum? Quello che il referendum non può fare la Corte lo dice nella 36 del 1997, sentenza che faceva parte dei 20 referendum radicali e dei 12 regionali che io coordinai, dove il propositore del referendum tagliò parole da due periodi diversi togliendo anche un punto; tolse, le ultime quattro parole di un periodo e le prime quattro parole del periodo successivo e venne fuori un periodo nuovo che congiungeva, naturalmente con un risultato totalmente diverso, un pezzo del primo periodo con un pezzo del secondo. La Corte disse: “l’operazione di ritaglio non può introdurre una nuova statuizione non ricavabile ex sé dall’ordinamento e anzi del tutto estranea dal contesto normativo”. Questo non può fare, ma questo non c’è.

Allora, e chiudo, il giudizio della Corte non può che avvenire sulla struttura formale del quesito, non può avvenire sulle conseguenze; le conseguenze per altro in questo caso sono conseguenze in qualche modo presenti nella norma, e quindi a mio giudizio il referendum è ammissibile.

Poi dopo di che può succedere di tutto ma io spero che non succeda perché sarebbe un ulteriore elemento di disturbo della situazione.

Io ritengo che il referendum sia profondamente sbagliato e riterrei molto saggio che le forze politiche prima o dopo il referendum, smettano di strumentalizzare la vicenda e ragionino su un sistema elettorale diverso, un sistema elettorale che oggi a mio giudizio non può essere un sistema basato sul premio di maggioranza, difficilmente potrà essere un sistema basato sui collegi uninominali, perché mi sembra molto difficile tornare indietro. Spero che non si cada sul sistema tedesco per le ragioni che ha ricordato giustamente Stefano prima – il sistema tedesco fotografa e in Italia probabilmente il sistema tedesco non avrebbe la clausola di sbarramento al 5% ma l’avrebbe allo 0,8% – e perché esiste sul tappeto una riflessione che chi studia un po’ i sistemi elettorali conosce ed è l’utilizzabilità dei sistemi del divisore che permettono risultati estremamente interessanti nel sistema italiano.

Il problema è chi è il soggetto politico che è in grado oggi di costruire una legge elettorale che, non dico ribalti, perché si può anche mettere insieme un pizzico di spinta alla coalizione con i sistemi del divisore, ma riscriva la base dell’accordo politico. Chi possa essere questo soggetto io, da studioso, non sono in grado di saperlo.

INTERVENTO DI STEFANO CECCANTI[6]

1. – Mi sembra limitativo discutere di ammissibilità, anziché di riforma elettorale. Fermo restando che possiamo discutere credibilmente di riforma solo perché è abbastanza scontata l’ammissibilità, altrimenti mancherebbe l’incentivo decisivo. Non rinuncerò quindi alla fine ad uscire dal tema per parlare di ciò che ritengo incerto rispetto a ciò che ritengo certo e quindi meno meritevole di discussione.

2. – Ho la sensazione che discutiamo di inammissibilità perché alcuni tra di noi non si rassegnano (in altri casi lo faccio anch’io) a proiettare i loro desideri sulla realtà. In particolare chi è dispiaciuto dalle precedenti sentenze di ammissibilità spera oggi di vedere un rovesciamento di giurisprudenza, sia che dichiari apertamente che di questo si tratti, sia che lo neghi. Più in generale vedo in questa avversione ai quesiti elettorali un timore eccessivo di carattere oligarchico contro elezioni-decisione, sia che si tratti di referendum, sia di sistemi elettorali selettivi, come se l’Italia fosse l’unica grande democrazia i cui elettori dovessero essere ritenuti minorenni per decidere da soli. Tranne poi magari esaltare i risultati nel recente referendum oppositivo sulla riforma costituzionale, da cui si tenta peraltro spesso di ricavare significati giuridici ulteriori rispetto agli unici reali in quel caso, trattandosi di una sorta di “quinta” lettura su quello specifico progetto nel suo insieme prima di una sua entrata in vigore. Altro discorso è su ciò che politicamente si può ritenere precluso, non giuridicamente.

3. – L’unico argomento è quello relativo agli effetti della normativa di risulta, che potrebbero essere eccessivamente disrappresentativi rispetto all’assenza di una soglia minima per il premio. Si tratta in ogni caso di un’assenza che è già tale nella legge vigente, non aggiunta dal referendum; non si vede pertanto come la Corte potrebbe dichiarare inammissibile il referendum e non porre di fronte a se stessa la questione della legittimità della legge. Partita in materia elettorale con l’intento di non creare vuoti, la Corte lo creerebbe direttamente: un po’ troppo per un overruling. Anche le due ulteriori ipotesi formulate dal prof. Lanchester, secondo cui la Corte potrebbe addirittura intervenire in chiave manipolativa, per evitare il vuoto, inserendo direttamente una soglia per il premio o eliminando il premio, non appaiono affatto convincenti. La Corte darebbe a sé stessa un potere manipolativo superiore a quello che negherebbe agli elettori.

4. – Neanche l’argomento in sé sarebbe del tutto convincente: non solo perché i sistemi uninominali producono spesso “naturalmente”, senza premio, analoghe disrappresentatività, ma perché l’assenza di una soglia retroagisce sui comportamenti e spinge in maniera decisiva all’aggregazione, al superamento della soglia che non c’è, dato che non sarebbe decisiva la collocazione di partiti di centro dopo il voto. Se chi arriva primo ha la maggioranza garantita l’incentivo alla coalizione pre-elettorale è pressoché irresistibile. Al contrario la presenza di una soglia facilita il non raggiungimento della stessa perché i partiti posti al centro non hanno a quel punto interesse a che il premio scatti: lo ha dimostrato negli anni la legge vigente a Trento sull’elezione diretta del sindaco, che subordinava in origine il premio per le liste del sindaco vincente al secondo turno a una soglia del 40% al primo turno. Il comma 9 dell’art. 27 della l.r. 30/11/1994 n. 3 è stato poi meritoriamente abrogato dall’art. 36 della legge 22 dicembre 2004, n. 7 per evitare che si presentassero “candidati civetta” che avevano lo scopo di far galleggiare il sindaco eletto un consiglio frammentato dalla proporzionale.

5. – In ogni caso la sentenza 32/1993 dichiarò ammissibile il quesito Senato che produceva direttamente effetti di scarto rispetto al principio del voto uguale” che non preesistevano nella legge; gli “inconvenienti” furono segnalati e proposti al parlamento sotto forma di monito. Tale caso risolve in via credo definitiva qualsiasi dubbio.

Così recita infatti il n. 5 del Considerato in diritto:

“La Corte non si nasconde che la normativa di risulta può dar luogo ad inconvenienti, ad esempio per ciò che riguarda, da un lato, la diseguale proporzione in cui l’uno e l’altro sistema di elezione sarebbero destinati ad operare nelle singole regioni, dall’altro – fermi restando gli artt. 9, secondo comma, e 28 della legge n. 29 del 1948 – gli effetti che il passaggio al sistema maggioritario semplice determina in caso di ricorso alle elezioni suppletive, secondo la legge 14 febbraio 1987, n. 31, al fine di ricoprire i seggi rimasti vacanti per qualsiasi causa, e in particolare per effetto di eventuali opzioni effettuate da candidati eletti in più collegi o eletti contemporaneamente al Senato e alla Camera dei deputati. Ma questi aspetti non incidono sull’operatività del sistema elettorale, né paralizzano la funzionalità dell’organo, e pertanto non mettono in causa l’ammissibilità della richiesta di referendum. Nei limiti del divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare (sent. 468 del 1990), il legislatore potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua.”

6. – Più interessante è invece la questione se un quesito integralmente abrogativo potrebbe essere ammissibile facendo nel caso in questione rivivere il Mattarellum. Dal momento che considererei migliore come normativa di risulta tale esito rispetto al quesito Guzzetta (che comunque per me è già comunque migliorativo della legge esistente) sarei tentato di sostenerne la costituzionalità. Credo però che finirei così anch’io per ripetere l’errore di proiettare i desideri sulla realtà. In particolare mi sembra difficilmente superabile la sentenza n. 40/1997 circa l’inammissibilità del referendum sui maestri elementari, in cui la Corte esprime la sua contrarietà all’interpretazione secondo cui vi sarebbe la reviviscenza della normativa precedente.

Recita il punto 2 del Considerato in diritto:

“Che tale sistema possa consistere nel ripristino dell’insegnante unico, quale mezzo per impedire la lamentata frammentazione dell’insegnamento e, quindi, la rottura del rapporto pedagogico e lo scadimento dell’attività didattica, è dubbio. La normativa che, nel decreto legislativo n. 297 del 1994, eventualmente risultasse dall’abrogazione delle parti sottoposte a referendum non giustifica tale conclusione, mancando regole o principi che possano subentrare alle norme abrogate, i quali abbiano come contenuto, appunto, il ripristino del sistema a insegnante unico.”

Ma spero appunto di essere confutatogiacché in questo caso le mie opinioni provvisorie vanno contro i miei desiderata.

7. – Circa le prospettive delle riforme in seguito all’ammissibilità del referendum, credo che qui occorra identificare nettamente i criteri di valutazione. Sul nodo irrisolto, anche dal referendum, della scelta dei rappresentanti, a cui allude però il quesito sulle candidature multiple, credo che sia giusto uno qualunque dei criteri delle grandi democrazie (lista bloccata corta, collegi uninominali, un misto tra i due), mentre invece è bene richiamare il dato che le soluzioni sulle formule di trasformazione dei voti in seggi non esprimono lo stesso orientamento.

Mentre il sistema scaturente dal referendum, come quello francese e quello spagnolo, nonché il Mattarellum, esprimono in forme diverse la logica della “democrazia immediata” o attraverso il pilastro di partiti a vocazione maggioritaria (Spagna, Francia) o di coalizioni guidate da candidati-Premier (sistema referendum) il sistema cosiddetto tedesco, anche laddove si adottasse un’improbabile soglia di esclusione del 5%, esprimerebbe la logica opposta di un sistema che fotografa, non che trasforma. Può essere sostenuto solo se l’obiettivo è quello di formare coalizioni post-elettorali, da democrazia mediata. Cosa che, per me, non condividendo quell’obiettivo, sarebbe regressiva, peggiorativa anche del sistema elettorale vigente. Nonostante i dubbi di altri ritengo ancora del tutto utilizzabile la distinzione tra “democrazia mediata” e “immediata”; anzi, dal 1993 ai vari livelli di governo, quella che era una distinzione teorica ci è ora evidente in tutte le sue implicazioni pratiche e in tutta la sua differenza. Insieme a noi la conoscono bene i cittadini elettori. Quelli a cui visioni “oligarchico talebane” vorrebbero negare la possibilità di esprimersi su scelte binarie. Quanto poi alle irrazionalità che da scelte binarie dirette deriverebbero, specie in materia elettorale, sia lecito replicare che l’ultimo prodotto di una decisione “mediata” parlamentare, la legge vigente, non sembra molto più razionale e convincente.

INTERVENTO DI AUGUSTO CERRI[7]

Cercherò di essere breve, come sempre. Accenno ad alcune impostazioni di fondo che sono state poc’anzi discusse, ma poi vengo alla parte giuridica, il più rapidamente possibile.

Condivido l’opinione che il rischio è quello di creare conglomerati artificiali che poi si dividono, dopo essersi uniti solo per prendere voti, e che, quindi, la proposta di riforma in esame offra una soluzione solo apparente; del resto, la storia medesima di questi ultimi quindici anni, contrassegnati da una insistente riformare le regole elettorali in un senso e poi in un altro e poi in un altro ancora, sempre a colpi di maggioranza, sembrerebbe dimostrare che nessuna soluzione ricercata per queste vie risulta poi, alla prova dei fatti, adeguata. Le leggi elettorali della «prima Repubblica» sono durate quarant’anni quasi; non si vede perché non possano durare altrettanto quelle della «seconda Repubblica». La strada da percorrere per conseguire questo obbiettivo, che non è ambizioso, ma di ordinaria amministrazione in una buona democrazia, è quella, però, di accordi ampi, che siano largamente condivisi. In altre occasioni ho accennato a dire che la frammentazione politica del nostro paese deriva da una sua storia tormentata, nel corso della quale le «grandi scelte» hanno sempre spaccato l’opinione pubblica e la società; e che, dunque, difficilmente può essere eliminata su di un terreno diverso da quello storico, del superamento reale di lacerazioni che non sono puramente capricciose.

Condivido, inoltre, le critiche ad un sistema elettorale nel quale l’ordine delle candidature sia già tutto prefissato al centro, attraverso procedure che, in genere, lasciano uno spazio minimo o inesistente alla base dei partiti. Per il timore, prima, del controllo sul voto, poi, della concorrenza fra candidati e, dunque, della proliferazione delle spese elettorali, con tutti gli inconvenienti che comporta, con il rifiuto, da ultimo, del sistema uninominale, si è finito con l’attribuire un potere esorbitante alle burocrazie politiche, in grado di ridurre gravemente la normale dialettica democratica. Non è facile dire da dove si debba ricominciare per innescare un «circolo virtuoso» che alimenti una democrazia più piena; a me sembra, però, che noi siamo caduti in un «circolo vizioso», dal quale occorre uscire al più presto.

Vengo alla parte giuridica che evidenzia due problemi: quello dell’ammissibilità di un referendum che conduca adesiti incostituzionali; quello delle eventuale revivescenza della normativa elettorale anteriore nell’ipotesi fosse abrogata radicalmente quella oggetto del proposto «referendum manipolativo».

È vero che la giurisprudenza della Corte nega, in genere, di poter considerare gli esiti della normativa di risulta ai fini dell’ammissibilità (cfr., ad es., sent. 10/1972; 251/1975; 16/1978; 24, 26/1981, 26/1987, 32/1993,26/1997, 33, 35, 45/2000). E’ vero, peraltro, che si tratta di giurisprudenza tutt’altro che compatta. Ed, infatti, talvolta, la Corte estende (ad es., per leggi costituzionalmente o comunitariamente necessarie o sotto il profilo della coerenza, chiarezza del quesito) il controllo di ammissibilità a quello di non incostituzionalità di tale normativa (cfr., ad es., sent. 32/1993; 5/1995; 17, 18, 26, 35/1997; 31, 41, 45/2000; 46/2005). Può consentire, del resto, argomenti contrari alla tesi della non valutabilità di tali esiti nella sede del giudizio di ammissione del referendum, proprio la giurisprudenza che ritiene non ammissibile una consultazione popolare idonea a rendere inoperanti istituti costituzionalmente necessari o indefettibili (fra cui rientra sicuramente una legge elettorale: cfr., ad es., sent. 26, 27, 32/1993; 2, 5/1995; 7, 9, 10/1995; 26/1997; 17,2 8, 31, 33/1997; 23/1999; 33, 34, 46, 49/2000). Se la normativa di risulta fosse palesemente incostituzionale, sembra difficile ritenerla idonea a sostenere la perdurante operatività dell’istituto essenziale; si tratterebbe, infatti, di una idoneità solo apparente e precaria. La circostanza, invece, che, in alcuni casi, la normativa di risulta sia stata oggetto di autonomo giudizio di costituzionalità (cfr., ad es., sent. 468/1990; 244/1996; 214/1998) non offre argomenti decisivi né a favore dell’una, né dell´altra tesi.

Le apparenti contraddizioni sembrano chiarite e superate dalla sent. 63/1990. Nel ritenere non valutabili gli esiti normativi dell’abrogazione eventuale ai fini dell’ammissibilità del referendum, la Corte precisa: «… è evidente la difficoltà è l’incertezza di un rigoroso accertamento a priori, che potrebbe portare ad un risultato sommario e provvisorio, suscettibile di essere smentito con un più adeguato approfondimento dialettico …». La Corte, dunque, sembra far valere, in questo contesto, un principio di «prudenza», di scrupolo processuale, se non anche di regime proprio dell’atto avente valore legislativo. L’incostituzionalità non può essere pronunziata fuori da un giudizio a ciò rivolto, fuori da un adeguato contraddittorio e neppure può esser ritenuta incidenter tantum, in un giudizio volto ad altro scopo.

Il caso ora in esame presenta, però, aspetti specifici (sottolineati da Bassanini), che lo sottraggono agli inconvenienti ed alle obbiezioni che hanno talvolta (si è visto: non sempre ed anche non senza ulteriori contraddizioni) trattenuto la Corte dal valutare la costituzionalità degli eventuali esiti normativi ai fini dell’ammissione del referendum. Il referendum manipolativo si innesta sui dati normativi di partenza, a loro volta, di dubbia costituzionalità. In questo caso, l’incostituzionalità della (eventuale) normativa di risulta non è un dato proprio e specifico, ma proiezione dell’incostituzionalità che già esiste ed inficia la normativa di partenza, su cui si appoggia la proposta di «referendum manipolativo». Il giudizio sull’ammissibilità delreferendum costituisce una sede lato sensu giudiziale. Se si ammette che l’Ufficio centrale, in sede di giudizio di procedibilità, possa sollevare questione di legittimità costituzionale delle leggi (cfr. sent. 334/2004; e già sent. 43/1982, su questioni sollevate da Uffici giudiziari istituiti da leggi della Regione, come organi competenti a giudicare l´ammissibilità di referendum regionale; cfr. anche Uff. centr., ad es., ord. 6/10/1980; 2, 15, 19/12/1980; 25, 26/1978; 3/6/1982; 13/12/1986; 13/11/1989), a fortiori deve ammettersi che possa sollevarla la Corte in sede di ammissibilità.

L’incostituzionalità della normativa di partenza risiede, innanzi tutto, in ciò che prevede una alterazione del criterio proporzionale adottata per uno scopo che è intrinsecamente inidonea a conseguire: poiché, infatti, prevede l’attribuzione del «premio di maggioranza» per il Senato su base regionale, questa legge non è idonea ad assicurare quella stabile «maggioranza di governo» che giustifica l’attribuzione di detto premio, almeno quante volte la vittoria elettorale di una coalizione non si traduca in una prevalenza in un numero di regioni adeguato. Ove, al contrario, la coalizione complessivamente di maggioranza avesse conseguito la maggioranza in un numero di regioni più ristretto, il premio che si andrebbe ad attribuire su base regionale, contribuirebbe a rendere precaria la governabilità. Non si può incidere negativamente sul principio di rappresentatività, come in altra sede ha illustrato il prof. Elia, se non per rafforzare il principio di governabilità; ma, in questo caso, si verrebbe ad incidere negativamente sul principio di rappresentatività, compromettendo eventualmente anche quello di governabilità.

La legge elettorale attualmente in vigore presenta altri macroscopici difetti: come quello di essere costruita in modo da poter condurre all’attribuzione, ad es., del 30% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 3,1% dei suffragi, ove tutti gli altri partiti della coalizione siano risultati al di sotto del 3% (secondo una certa interpretazione che, allo stato, sembra essersi affermata); o di azzerare una coalizione, che abbia riportato il 40% dei suffragi, ad es., per il solo fatto che non contenga alcun partito, nel suo interno, al di sopra del 3%. Si tratta di incisioni clamorose sul principio di proporzionalità, prive di reale giustificazione.

E’ chiaro che l’incostituzionalità delle legge elettorale non comporta l’illegittimità delle camere che sono state elette mediante di essa; perché la validità del risultato è coperta dal giudicato delle camere stesse in sede di verifica dei poteri.

Non facile è il discorso sul se l’abrogazione di una norma abrogativa comporti la reviviscenza o non della norma abrogata. Si ammette, generalmente, che la dichiarata incostituzionalità della disposizione abrogatrice conduca alla «revivescenza» di quella abrogata: cfr., ad es., sent. 43/1960; 107/1974; 33, 91/1982; 108/1986; 32, 74, 249/1996; 408/1998; 503/2000; 220/2003; 58/2006. V. anche ord. 306/2000. Isolata è la sent. 36/1982, che nega la revivescenza; cfr. anche, dubitativamente, sent. 310/1993; 143/1997. E, peraltro, i problemi sono diversi: perché la dichiarazione d’incostituzionalità presuppone un vizio originario della disposizione/norma abrogatrice, tale da inficiare ogni suo effetto (ed anche quello abrogativo, dunque), a differenza dell’abrogazione che opera sul terreno di una sopravvenuta opportunità o valutazione storico/politica.

Sembra escludere la revivescenza delle norme abrogate, in seguito ad abrogazione di quelle abrogatrici, implicitamente la sent. 31/2000 (in tema di referendum); meno chiara è la sent. 40/1997 (sempre in tema di referendum: p. 2, in diritto), ove gli effetti ripristinatori della precedente disciplina vengono esclusi anche in relazione al carattere parziale e manipolativo dell´abrogazione proposta (e, dunque, si potrebbe argomentare, a contrario: non anche ove si proponesse un’abrogazione pura e semplice).

Ci sono casi, però, in cui si è ammessa la reviviscenza per abrogazione esplicita o implicita di legge abrogativa. Un’interessante dottrina ha fatto osservare che il regio decreto sulla Presidenza del Consiglio del 1901 è rientrato in vigore, senza nessuna positiva statuizione di legge, fino alla legge n. 400 del 1988. E così la legge comunale e provinciale del 1915 per la parte che riguardava gli organi rappresentativi degli enti locali, fino alla nuova legge comunale e provinciale del 1990.

Si ammette, in genere (in giurisprudenza e dottrina), che una legge di pura abrogazione di altra legge puramente abrogativa comporti la revivescenza della disciplina abrogata dalla seconda; ciò perché l’abrogazione dell’abrogazione non avrebbe, in tale contesto, altro senso se non quello ripristinatorio della disciplina originariamente abrogata. In relazione a ciò talvolta si è osservato che solo impropriamente si parla di revivescenza, mentre più appropriato sarebbe dire che la legge abrogativa in via espressa di legge puramente abrogatrice, in realtà implicitamente dovrebbe considerarsi approvativa di una normativa corrispondente a quella originaria, non potendo avere altro senso la pura abrogazione di legge espressamente abrogatrice.

Il consenso unanime su questa ipotesi di propria od impropria «revivescenza» non spiega però gli altri fenomeni di revivescenza cui ho poc’anzi accennato; né si accorda del tutto con una recente giurisprudenza (sent. 171/2007) la quale, muovendo dal sindacato sul ricorrere del requisito della necessità ed urgenza del decreto legge, ha valorizzato il procedimento di formazione dell’atto legislativo (la legge di conversione può essere legge anomala, sotto il profilo procedurale, in quanto si colleghi ad un decreto legge giustificabile come tale; non anche quando il decreto legge sia del tutto carente di intrinseca giustificazione). Quest’ultima giurisprudenza potrebbe suggerire l’idea, invece, che non tanto viene riapprovato (implicitamente; ma, in ipotesi, con procedimento del tutto anomalo e non consentito) il contenuto della legge originariamente abrogata, quanto che l’abrogazione sia un fenomeno reversibile e, cioè, un impedimento rimuovibile al vigore delle leggi procedenti.

A mio sommesso avviso, l’effetto di revivescenza dovrebbe essere ammesso quante volte l’abrogazione investa non solo le particolari modalità normative della legge, ma questa nella sua interezza o, quanto meno, anche la decisio abrogans, in essa contenuta. Non si tratta di tesi sostenuta solo in questa occasione e «per arrivare ad un certo risultato», perché invece si tratta di tesi che sostengo in un libricino (Prolegomeni ad un corso sulle fonti) che ormai, in due edizioni, circola da circa un decennio. Questa tesi ricomprende e spiega, mi sembra, tutte le ipotesi in cui si è ammessa la revivescenza di leggi abrogate, in seguito all’abrogazione della legge abrogatrice; ed entra maggiormente «in sistema» con la giurisprudenza medesima, cui si accennava, relativa alla dichiarazione d’incostituzionalità di norma abrogatrice.

 

INTERVENTO DI RICCARDO CHIEPPA[8]

L’inammissibilità dei Referendum proposto sulle disposizioni della legge elettorale politica (a seguito della legge 21 dicembre n.270) è molto opinabile. Invece esistono fondati argomenti a favore del merito delle soluzioni di risulta, in caso di accoglimento dei quesiti aventi il carattere di parziale abrogazione soppressiva di alcune previsioni alternative, che hanno contribuito (insieme ad altre purtroppo non suscettibili di referendum in quanto a rischio di bloccare il funzionamento del sistema elettorale) ad un pessimo meccanismo di elezioni politiche

Un aspetto è certo: la legislazione vigente a seguito della anzidetta legge n. 270 del 2005 – non vi è stata stata in questo dibattito una sola parola a favore – viene concordemente considerata come qualche cosa di negativo, in tutto o in parte a seconda delle propensioni. Personalmente ritengo che l’anzidetta legge n. 270 è talmente negativa sotto i profili dell’efficienza e della costituzionalità, che qualsiasi correzione non può andare al di sotto del livello di legittimità costituzionale dell’attuale normativa. Quindi qualsiasi modifica ben venga rispetto alle disposizioni vigenti. Ne abbiamo visto gli effetti anche sullo svolgimento dell’attività parlamentare e governativa e questo si ripeterebbe anche in caso di nuove elezioni (immediate o prossime che siano e quale sia la maggioranza che prevalga) se effettuate con normativa immutata.

Preferisco in questo dibattito soffermarmi con uno sguardo rivolto al passato e non su quello che potrà essere il compito della Corte costituzionale nel giudizio di ammissibilità del referendum.

Vi è, infatti, un aspetto statistico dei referendum che è anche significativo di un atteggiamento della Corte. La Corte ha tenuto sempre presente che le leggi elettorali politiche (per quanto riguarda i meccanismi del sistema elettorale) non hanno un’effettività di protezione costituzionale con mezzi di reazione giustiziabili, attraverso i giudizi di legittimità costituzionali.

L’unica via, difficilmente probabile, sarebbe quella di una questione di l.c. sollevata avanti alla Giunta delle elezioni di una Camera e da questa non ritenuta manifestamente infondata. Ma vi è sempre l’ostacolo – allo stato attuale di mancanza di riviviscenza di normativa preesistente – che la questione sollevabile e la pronuncia della Corte costituzionale in sede di l. c.non potrebbe avere effetto paralizzante del meccanismo elettorale e che esporrebbe i deputati a rivolgimenti nella proclamazione degli eletti e in taluni casi anche al rinnovo delle elezioni (ma con quale legge?). Il vero che vi è da dubitare che si avrà il coraggio e la possibilità concreta di portare questioni del genere avanti al suddetto organo (Giunta per le elezioni), che, in quanto risolve in via definitiva contestazioni elettorali (una tutela giurisdizionalmente garantita deve pur esserci!) dovrebbe essere considerato come potenziale giudice a quo ai fini del controllo di legittimità costituzionale.

Del resto ciò è confermato dal fatto che queste leggi, per gli anzidetti profili, non sono mai giunte all’esame della Corte costituzionale, malgrado problemi sorti in passato nel dibattito politico-costituzionale. Questo sta ad indicare che l’unica valvola di sicurezza è l’istituto del referendum e spiega, sulla base delle statistiche, che la materia, per la quale la Corte costituzionale ha pronunciato il maggior numero di decisioni sull’ ammissibilità di Referendum, è quella di legge elettorale: ben cinque in tutta la storia, anzi cinque e mezzo, perché un quesito è stato sulla legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura.

Questo ultimo caso può essere attribuito a metà, tra leggi elettorali e leggi attinenti alla Magistratura. La statistica porta al secondo posto la materia relative ai magistrati (con quattro e mezzo), probabilmente per una serie di ragioni, tra cui la non popolarità dell’azione dei giudicied un senso critico talvolta esasperato sia dei giudici sia dell’opinione pubblica nei riguardi della Giustizia. Nella statistica segue la materia della caccia (con tre casi), a conferma della proporzione di sensibilità ai diversi problemi.

Nei riguardi della legge elettorale politica può giustificatamente ritenersi che il Referendum resta, sul piano dell’effettività, l’unico mezzo di difesa per i cittadini elettori, che vogliono reagire di fronte ad una legge elettorale non condivisa e lesiva, come quella che ha governato le ultime elezioni.

D’altro canto nessuno ha avuto l’ardire (o la fiducia ragionevole) di eccepire questioni di l. c. sulla legge elettorale avanti alla Giunta per le elezioni, che, in astratta ipotesi difficilmente realizzabile – si torna a mettere in rilievo – potrebbe sollevare questioni di legittimità costituzionale, e non lo farà mai perché sarebbe il suicidio quanto meno parziale della legislatura ed anzi rischierebbe di aprire il vuoto nella difficoltà di un diverso sistema elettorale per una nuova elezione.

Di conseguenza l’unico mezzo di “spinta”, o “pungolo”, o “arma di pressione”, o “stimolo” o “invito ultimativo” a cambiare, a secondo della tendenza e propensione dei commentatori della legge 270 del 2005, rimane questo referendum attuale, come unico strumento di democrazia in mano al cittadino elettore, per spingere il legislatore a reintervenire e a cambiare.

Inoltre rispetto a diverse leggi anche elettorali, la procedura referendaria ha dato più di una volta luogo, prima della conclusione o subito dopo, ad un intervento del legislatore. Questa è, anche, la forza e il significato del referendum con gli attuali quesiti.

Di fronte ad una constata irrazionalità e ad una palese irragionevolezza delle attuali norme che stanno determinando una strisciante forma di paralisi istituzionale, più meno voluta e prefigurata, il referendum attuale è l’unica via praticabile per correggere almeno alcuni degli errori del legislatore o meglio ancora per spingere a cambiamenti più radicali.

Quindi ben venga il referendum anche sul piano dell’opportunità e della legalità costituzionale, quale mezzo per stanare il legislatore superando le mere e contingenti alchimie di convenienza di gruppi politici.

Da considerare che la legge elettorale vigente, con la pluralità di candidature in più circoscrizioni senza limiti, ha consentito oltre 280 casi di opzioni concatenate, il che vuol dire che per una parte, tutt’altro che trascurabile, di parlamentari non vi stato un suffragio “diretto”, esercizio del potere di scelta dell’elettore: è stata solo un’alchimia pura e semplice per una cooptazione da parte di vertici di gruppi politici.

Il principio di una democrazia moderna, su base di Costituzione con garanzia di diritti e posizioni costituzionalmente protette, impone che vi sia una via per consentire almeno un tipo di controllo quanto meno popolare. La via del Referendum abrogativo supplisce a determinate impraticabilità del controllo di legittimità costituzionale.

Si può essere anche d’accordo per porre limiti ai veri e proprireferendum pienamente manipolativi, ma nei quesiti del referendum 2007-2008 non ricorre il caso, trattandosi di soppressione di specifiche ipotesi alternative previste dalla legge vigente, senza creare alcunché di non previsto.

Tuttavia è necessario trovare altre soluzioni o indirizzare verso altri sistemi di controllo effettivo o consentire una ampiezza diversa di interventi e di tutela anche sul piano della legittimità costituzionale, per gli istituti costituzionalmente necessitati, che non possano subire effetti paralizzanti: le soluzioni potrebbero essere molteplici dalla reviviscenza delle precedenti leggi anteriori ad nuovo sistema incostituzionale o da un controllo preventivo (prima dell’entrata in vigore) ed eventuale in mancanza di approvazione con maggioranza qualificata, fino alla previsione di controllo di costituzionalità sulla base di iniziativa popolare sottoscritta da un determinato ed ampio numero di elettori o alla possibilità di diversa configurazione di garanzia del contenzioso elettorale politico pur salvaguardando le prerogative del parlamento.

Questi aspetti sono importanti soprattutto per le leggi elettorali, perché attualmente vi può essere una grossa carenza sul piano costituzionale ed il referendum abrogativo (parziale) nella materia può valere – come finora è avvenuto – anche come istituto di supplenza, di fronte ad inerzie o contraddittorietà del legislatore, naturalmente fino a quando non si troveranno queste “altre soluzioni”.

INTERVENTO DI GIANNI FERRARA[9]

Ho molto apprezzato la relazione predisposta da Fulco Lanchester. La completezza dei dati che ci fornisce con tanto elevata sensibilità politico-istituzionale aiuta molto. Lo ringrazio e vengo al tema.

Sono uno dei pochi costituzionalisti che, a suo tempo criticò, e anche duramente, la Corte Costituzionale quando, rovesciando l’indirizzo fino ad allora seguito in coerenza con lo spirito ed anche con la lettera delle deliberazioni della Costituente, decise a favore dell’ammissibilità dei referendum elettorali. Usai parole anche molto dure, delle quali non mi pento.

Non posso però, per una malintesa e stupida coerenza con la critica di quella decisione, prescindere dalla massa di pronunzie in materia di ammissibilità del referendum. Sappiamo tutti che si tratta di una “giurisprudenza”, se così si può chiamare, che si caratterizza, in via generale, per difetto di coherence. Ma sappiamo pure, e non possiamo né dimenticare né sottovalutare che, per uno solo dei requisiti delle istanze referendarie da richiedere per dichiararne l’ammissibilità, la Corte è stata invece rigorosamente esigente. Fu infatti proprio con la sentenza n. 32 del 1993 che nel dichiarare ammissibile il referendum Segni-Barbera, la Corte, motivando il rovesciamento dell’orientamento precedente, affermò che, nella specie, i quesiti di quella richiesta erano omogenei, riconducibili ad una matrice razionalmente unitaria, chiari ed univoci e rilevò che a tale omogeneità corrispondeva la parallela e lineare evidenza delle conseguenze abrogative.

Se, come credo, è questo il criterio che presiede alla declaratoria di ammissibilità dei quesiti referendari, dobbiamo domandarci quali conseguenze abrogative deriverebbero dall’approvazione dei quesiti proposti in ordine alle leggi elettorali vigenti per escludere che il premio di maggioranza si applichi alle coalizioni. Tali conseguenze sarebbero lineari, evidenti, univoche? A mio avviso, ma non credo solo a mio giudizio, le conseguenze potrebbero essere due.

Una è quella delle coalizioni provvisoriamente aggregate in liste. I partiti che compongono le coalizioni di lista fornirebbero i candidati restando però tali. Così come resterebbero esponenti dei singoli partiti i candidati, per riprodurre, se eletti, la composizione partitica di ciascun listone. Cioè, la proiezione dei singoli partiti nella rappresentanza parlamentare, che si ristrutturerebbe in coalizioni che da elettorali diverrebbero parlamentari, o di maggioranza (e di governo) o di opposizione, senza conseguenze, né automatiche, né indotte sul piano della ristrutturazione del sistema politico.

L’altra conseguenza è quella di permettere che una lista, che raggiungesse lo 0,1% di voti in più rispetto a ciascuna delle altre, possa ottenere quel premio che la rende molto più forte, molto più solida e molto meno legittimata della maggioranza che consentì, con la legge Acerbo, l’instaurazione di un regime fascista. So bene che questa ipotesi si configura come la meno probabile, ma non è affatto da escludere. Ben potrebbe essere perseguita da un partito particolarmente favorito da un’ondata massiccia e consolidata di favore da parte dell’opinione pubblica e confortato da risultati reiterati e costanti di sondaggi plurimi. Non è la probabilità di realizzarsi di questa ipotesi che conta. Conta la possibilità non remota che possa configurarsi.

Conta la constatazione che le conseguenze abrogative del referendum di cui discutiamo non sono né chiare, né univoche. Perché sono due, opposte ed alternative. L’elettore quindi, checché ne dica il comitato promotore del referendum, non sa quali potrebbero essere le conseguenze del voto favorevole al quesito abrogativo delle disposizioni che incentivano le coalizioni. Disporrebbe certo del voto ma non del potere di determinare le conseguenze, preannunciate dai promotori, del voto favorevole al quesito. La duplicità degli effetti del voto, inficia il quesito rivelandone la doppiezza. A me pare evidente che ne dovrebbe derivare come conseguenza l’inammissibilità del quesito

Un’ultima osservazione. L’insistenza dimostrata da parte del comitato dei promotori sulla necessità di realizzare in Italia un bipolarismo, e addirittura un bipartitismo, assoluto, e anche esclusivo, che ha a che fare con quanto prescritto e garantito con le norme degli articoli 48 e 49 della Costituzione?

La libertà di associazione politica e il diritto alla rappresentanza attengono o non ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale? Deve o non deve essere garantito a tutti il diritto ad essere rappresentati -pur se nei limiti e nell’ambito di una proiezione di un’entità di milioni di cittadine e di cittadini in una pluralità collegiale di centinaia di componenti -ed essere rappresentati è o non è lo strumento primario per garantire a tutti il diritto di contribuire a determinare la politica nazionale? Non sono domande peregrine in tempi di bipolarismo coatto e di adorazione del maggioritario.

Ho letto in questi giorni che l’80% degli intervistati in Italia pensa che l’attuale ceto politico tenga al voto e non all’opinione degli elettori.

Vuole la Corte Costituzionale permettere, ancora una volta, che si chieda all’elettrice ed all’elettore di dedurre da 67 proposte di abrogazione di parole da testi legislativi più due tagli, qual è la posta in gioco e quali conseguenze scaturiscono dalla scelta di un sì o di un no?

INTERVENTO DI VINCENZO LIPPOLIS[10] (non rivisto dall’autore)

Vorrei preliminarmente toccare un punto che è stato accennato ma che non riguarda il referendum, la cosiddetta democrazia immediata o d’investitura: il mio pensiero è che questo tipo di democrazia forza il modello costituzionale perché ostano a questo modello tre capisaldi della Costituzione: il bicameralismo paritario, non spiego tutti i passaggi perché penso di rivolgermi a persone che comprendono immediatamente che non ci può essere democrazia d’investitura con un bicameralismo paritario come questo; altro punto fermo è quello dei poteri del Presidente sulla nomina del Presidente del Consiglio; infine, il fatto che le Camere possono sfiduciare quando vogliono il Governo e farne un altro. Non arrivo a dire come facevano Lavagna, Barile e Gianni Ferrara che l’unica legge elettorale possibile è quella proporzionale, però leggi elettorali che favoriscono il modello della democrazia immediata forzano e sono fuori centro rispetto alla forma di governo costituzionale. Perché dico questo? Perché io vedo un grande pericolo, che è il pericolo del 1993-94, quando si è passati ad un tipo di democrazia maggioritaria solo con la legge elettorale e il modello costituzionale non è stato adeguato: io non sto dichiarando che sono contrario a quel modello ma sto dichiarando che quel passaggio è stato avventuroso e fonte di conseguenze negative, cioè l’aver fatto il referendum e di essere passati alla democrazia maggioritaria solo con la legge elettorale e senza l’adeguamento costituzionale. Non vorrei si ripeta un’altra situazione peggiore rispetto al 1994, una situazione in cui, sotto questo aspetto, considero irresponsabile il referendum.

Questo è un argomento che mettiamo da parte e veniamo alla questione di oggi che è sull’inammissibilità. Io ho già sostenuto che il referendum potrebbe essere, anche qui io vorrei essere cauto e avanzo degli argomenti che non sono sicuro che saranno risolutivi, li prospetto, ma stiamo discutendo e accolgo il modello di seminario universitario in cui ci confrontiamo sulle idee senza certezze; allora io ho già sostenuto che il risultato del referendum in questione sarebbe incostituzionale per i motivi che già sono stati detti ampiamente, cioè che il referendum potrebbe dar luogo al fatto che un partito, se le liste sono veramente liste vere e non sono solo listoni acchiappatutto, con il solo 25% abbia circa il 54% dei seggi, è stato detto e ridetto, ma secondo me questa ipotesi sbriciola il principio della democrazia rappresentativa, è contrario agli artt. 1, 48 e 49 della Costituzione. Allora due obiezioni: ma questa è un’ipotesi già contenuta nella legge attuale ed allora qui sviluppo e riprendo cose già dette da Cesare Pinelli. C’è una profonda differenza tra l’ipotesi di mantenere e quella di eliminare le coalizioni, perché il fatto che vi sia la possibilità di collegamento tra le liste fa si che naturalmente l’effetto del sistema elettorale prevede che chi vince si avvicina molto al 50% perché, perché le altre forze politiche non consentirebbero ad una forza con il 20% di prevalere e quindi si collegano fra loro, raggiungendo un quorum più elevato; questo elemento era già in discussione nell’elaborazione della legge elettorale e non so se per trascuratezza, non fu considerato perché si disse che se ci sono delle coalizioni di liste è inutile che poniamo delle soglie di sbarramento per le coalizioni di liste, sarebbe inutile. Anche su questo argomento mi sono già pronunciato al seminario del Ministro Chiti a Firenze e ritengo che questo sia un aspetto da modificare dell’attuale legge, perché il fatto che non ci sia una soglia di sbarramento è uno dei gravi difetti della legge elettorale attuale, ma questo non giustifica il risultato che potrebbe venire fuori dal referendum: in sostanza, io sono dell’idea che eliminare l’ipotesi delle coalizioni di liste snaturi l’attuale legge e provochi un risultato che sarebbe incostituzionale, il che oggi non mi porta a difendere il fatto che non ci sia la soglia di accesso al premio, anzi lo ritengo un difetto della legge. Allora ora vediamo un altro aspetto, la Corte Costituzionale potrebbe rilevare questo elemento? Se è vero quello che ho detto, che la normativa di risulta è incostituzionale, il problema è di capire come la Corte può rilevare questi elementi di incostituzionalità; io voglio ricordare alcune sentenze della tornata del 1997: in queste sentenze i referendum regionali, soprattutto, furono dichiarati inammissibili perché alcuni affermavano che mettessero in gioco direttamente delle norme o dei principi costituzionali. Erano le sentenze n. 17, 18, 19, 24 ma vi era la n. 20 in cui non si diceva che il referendum fosse inammissibile perché avrebbe portato all’abrogazione di una norma costituzionale e non si richiamava neanche il concetto di legge a contenuto costituzionalmente vincolato, ma si diceva che il referendum (che riguardava i rapporti della CE con le Regioni) fosse inammissibile perché ostava il principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, sancito nell’art. 5. Come ha affermato giustamente Capotosti che a dire il vero si può trovare tutto nelle sentenze della Corte, allora si possono trovare anche argomenti a favore della tesi dell’inammissibilità, cioè in quella sentenza si è detto che l’eliminazione di queste norme non è possibile perché questa infrangerebbe il principio dell’art. 5 della Costituzione, e questo potrebbe significare che, se è vero che la normativa di risulta è incostituzionale, questa eliminazione violerebbe gli artt. 1, 48 e 49 Cost; quindi secondo me si potrebbe arrivare ad una sentenza di inammissibilità a parte le considerazioni di Mezzanotte sull’eterogeneità del quesito. Vorrei richiamare l’attenzione in conclusione su un aspetto a cui ha fatto solo un breve cenno Luciani ma che secondo me deve essere approfondito: è quello del terzo quesito rispetto al quale io sono favorevole, cioè l’eliminazione delle candidature multiple e anche per questo quesito c’è una aspetto di inammissibilità che potrebbe essere considerato e quindi non vorrei che i referendari come Stefano Ceccanti, che sono animati da buone intenzioni, poi si vedano cassare anche le cose migliori che sono contenute nel referendum; l’articolo 19 della Legge elettorale contiene due principi, l’esclusione delle candidature in liste con diversi contrassegni e l’esclusione delle candidature alla Camera e al Senato; il secondo quesito con l’abrogazione di due parole, perché la Legge dice che nessun candidato può essere incluso con liste con diversi contrassegni nella stessa o in altre circoscrizioni pena la nullità della elezione, abrogando le parole nella stessa e o (non so se è compreso anche l’o), tende ad ottenere il risultato di affermare il principio che non è possibile candidarsi in più circoscrizioni, anche sotto lo stesso contrassegno, un principio che non è contenuto in quell’articolo; qui potrebbe valere la sentenza n. 36 del 1997 in cui si diceva che è necessario che ci sia un effetto ablativo che faccia emergere i principi contenuti già nella norma e non che l’effetto di cancellazione di parole faccia emergere un principio assolutamente nuovo nella norma, non so se ho riassunto bene la sentenza. In questo caso secondo me anche il terzo quesito presenta aspetti di inammissibilità perché fa emergere un principio che nella norma non è assolutamente contenuto, sarò cavilloso ma a me pare che i referendari siano più cavillosi di me.

INTERVENTO DI MASSIMO LUCIANI[11]

Pochissime considerazioni, davvero sintetiche e liminari.

Farei, anzitutto, esercizio di prudenza e di modestia, nel prendere posizione sul problema dell’ammissibilità delle richieste referendarie delle quali discutiamo oggi. I criteri che la Corte costituzionale si è data, nella sua pluridecennale attività, per verificare l’ammissibilità dei referendum, infatti, sono di estrema complessità, mentre la giurisprudenza della Corte si è stratificata secondo linee di sovrapposizione che non sono regolari. Prendiamo, ad esempio, la questione dell’autoapplicatività. Ad un primo sguardo, i quesiti in discussione parrebbero garantire questo risultato, ma una risposta definitiva, sul punto, si potrà dare solo dopo un esame molto attento. E per quanto possa essere “definitiva” la risposta di quello o dell’altro studioso, la decisione del giudice dell’ammissibilità resta pur sempre difficilmente prevedibile.

Per quel che riguarda, poi, in particolare, il primo quesito, relativo alla Camera dei Deputati, ritengo che l’abrogazione del terzo comma dell’art. 84 potrebbe dar luogo a qualche problema di efficienza del sistema, per come risultante dal quesito referendario. Per quanto riguarda il terzo quesito (per intendersi: quello che tenta di introdurre il divieto di candidatura multipla), invece, possono segnalarsi dei dubbi sulla sua capacità di produrre un risultato effettivamente comprensibile, perché la manipolazione del testo legislativo che determina non è chiarissima.

Proprio la questione della manipolatività, peraltro, mi sembra, in generale, quella davvero cruciale. Personalmente, ritengo che tutti i referendum manipolativi siano inammissibili, ma è ovvio che la mia opinione non conta nulla davanti alla giurisprudenza della Corte costituzionale. Si sa bene, però, che quella giurisprudenza della Corte costituzionale non ha affetto ammesso sempre, a cuor leggero, tutti i referendum manipolativi, quali che fossero il grado e gli effetti della manipolazione. Un accertamento essenziale, ad esempio, è quello della preesistenza o meno del principio normativo, introdotto dalla richiesta, nell’ordinamento (nel quale fosse – come dire – “incapsulato”). Cosa, questa, che è di estrema difficoltà, perché l’identificazione di un principio dipende sempre dalla prospettiva che è assunta dall’interprete, sicché è assai arduo far uso di questo incerto criterio, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Anche qui, insomma, non mi azzarderei per nessun quesito referendario a dare risposte perentorie.

La questione dell’omogeneità e della chiarezza. Anche questa è, ovviamente, essenziale. La giurisprudenza della Corte costituzionale, è noto, è di estrema complessità, il che si spiega per la ragione semplicissima che non è possibile definire con un grado di minima, accettabile precisione, cosa si intenda per omogeneità di un quesito referendario. Le incertezze e le oscillazioni della giurisprudenza sono la miglior riprova di questa affermazione.

Infine (infine, almeno, stando ai soli problemi davvero fondamentali), la questione della normativa di risulta e dell’eventuale giudizio di costituzionalità su di essa. Personalmente, se mi si consente l’espressione colloquiale, non la farei tanto complicata (anche se ho molto apprezzato l’elaborazione concettuale di Franco Bassanini). Il punto che davvero ci interessa in questa fase mi sembra solo questo: se la Corte costituzionale, quando giudica dell’ammissibilità di una richiesta di referendum abrogativo, si occupi o meno anche della legittimità costituzionale della normativa di risulta. La giurisprudenza ha sempre negato di aver utilizzato il giudizio di ammissibilità per operare una sorta di sindacato di costituzionalità anticipato, ma la realtà dei fatti è ben diversa, e dimostra come questo sia avvenuto moltissime volte e come – anzi – questa sia la tendenza più recente. Si tratta di capire, allora, quanto l’abbia fatto, in che misura l’abbia fatto e quali siano i limiti di questo sindacato di costituzionalità anticipato (in particolare, se esso si limiti all’accertamento di violazioni delle norme costituzionali davvero clamorose, che determinino una sorta di intollerabilità costituzionale della normativa di risulta). Da questo punto di vista, condivido le preoccupazioni che prima Fulco Lanchester, con nettezza e chiarezza, ma anche e soprattutto con prudenza ha posto sul campo.

E’ vero, infatti, o non è vero che il premio di maggioranza deve avere un qualche temperamento? Certo, già adesso il premio di maggioranza esiste, ma è immaginato per coalizioni, e il suo rendimento con la limitazione della competizione alle liste potrebbe essere radicalmente diverso. Anche qui, si tratta di un problema sul quale dobbiamo ragionare insieme, senza dare risposte perentorie.

Chiudo con un’osservazione che non c’entra niente con la questione dell’ammissibilità delle richieste di referendum, ma c’entra molto con le loro premesse teoriche, e riguarda l’espressione «democrazia immediata». Non so quanto tempo ci vorrà per liberarsi da questa terminologia e dalla sottesa ideologia: come faccia la democrazia rappresentativa ad essere immediata, io, per quanto – con le mie modeste forze – abbia studiato, non l’ho capito.

INTERVENTO DI CARLO MEZZANOTTE[12]

Di fronte a questo dibattito così accanito, intorno a questo referendum elettorale manipolativo, sono assalito dall’idea di tornare ad una mia primitiva idea, secondo cui i referendum abrogativi non possono essere manipolativi. Dico una mia primitiva idea, perché io ero originariamente contrario al referendum che è stato poi ammesso con la sentenza n. 32 del 1993. Tutte le volte in cui mi capitava di mostrarlo agli studenti facevo sempre questo esempio: è come se qualcuno, avendo a disposizione la Divina Commedia, volesse scrivere l’Infinito senza avere a disposizione l’intero panorama della lingua italiana, che è una lingua sofisticata. Invece, rozzamente, brutalmente, va per sottrazione di un poema che da solo funziona benissimo, ma per sottrazione funziona malissimo. Tanto è vero che io credo che se partite da una qualunque cantica della Divina Commedia sarà difficile che riuscite a scrivere l’Infinito. Ora, detto che con i referendum manipolativi non si può scrivere l’Infinito, trovo calzante la definizione che qui il nostro ospite ha dato di questo referendum: rozzo, brutale. Io credo che nei referendum abrogativi manipolativi emerga l’aspetto peggiore della politica legislativa. Legiferare per sottrazione non si può. Se il legislatore costituzionale avesse voluto consentire al popolo, al corpo elettorale, di legiferare in positivo avrebbe previsto qualcosa di simile a quella che altrove viene chiamata l’iniziativa legislativa, cioè la redazione di un insieme di disposizioni in articoli da sottoporre al corpo elettorale ai fini dell’approvazione della legge popolare. Noi non abbiamo la legge popolare, abbiamo il referendum abrogativo che può colpire disposizioni, non può colpire parole, poiché l’abrogazione delle parole non esiste. L’abrogazione può riguardare norme, può riguardare disposizioni. Ricordate la insegnavamo, e io continuo ad insegnarla, la distinzione tra disposizione e norma. Abrogare significa eliminare, o delimitare nel tempo, una proposizione linguistica compiuta. Se volete eliminare una norma dovete avere a disposizione una lingua e una disposizione che contenga quella disposizione che volete abrogare. L’abrogazione è questa. Anch’io mi sono occupato, durante la mia attività di insegnamento, nonché di giudice, di questi problemi negli stessi luoghi in cui se ne è occupato il prof. Capotosti che vi ha parlato adesso, il quale sembra di opinioni esattamente opposte alle mie. Perché non dimenticare, Piero Alberto, che di queste cose ne abbiamo discusso che non ne potevamo più? Se cioè sia possibile abrogare una parola? Io vi dico: ci sono studenti qui o sono tutti giuristi? Avete mai visto un quesito referendario manipolativo? Viene una cosa come questa che vi ho portato, così vi rendete conto nel leggerla di che cosa si tratta e a quale attività legislativa vi si vuole indurre. Non ci capite niente! Nessuno, neanche un giurista cha vada lì con la legge riesce a capire che cosa sta facendo in quel momento in cabina. Tutto questo getta una luce negativa su questi referendum. Non voglio però dire che il corpo elettorale non possa abrogare norme implicitamente contenute in disposizioni, perché questo sarebbe il punto, tant’è vero che vi è stata la sentenza Capotosti, la n. 36 del 1997. È passata molta acqua sotto ai ponti, caro Beniamino Caravita, da quando c’era il referendum e si difendeva davanti alla Corte Costituzionale. Ma io sono stato sempre contrario ai referendum manipolativi. Mi è testimone qui il nostro ospite che sono stato fortemente contrario fin dall’inizio, ero contrario al referendum che poi andò a finire sotto la scure della legge, dichiarato ammissibile con la sentenza n. 32 del 1993. Spero che non si voglia mettere in discussione la legittimità della Corte a fare sentenze di interpretazione! Come fa la Corte Costituzionale, anche il popolo sovrano può estrapolare dalla disposizione scritta la norma. Lo può fare un qualunque elettore. Ma a questo punto la norma ci deve essere. E io vi confesso, caro Piero Alberto, che qua dentro la norma non ce la vedo. Quella norma che vogliono eliminare non c’è. Non c’è una norma che corrisponda ad una riga scritta in orizzontale, basta leggere un qualunque frammento di lingua di cui viene richiesta l’abrogazione: “coalizione di liste o”, “limitatamente alle parole coalizione di liste o”, “varie coalizione di liste o”. Non c’è una norma di questo genere di cui si potrebbe essere legittimati a chiedere l’abrogazione della corrispondente disposizione. “Tutte le liste della coalizione o”, ovunque ricorrano le parole “coalizioni di liste o”, “coalizione di liste o” limitatamente alle parole numero 6. Insomma perché poi alla fine è questo che va in mano al popolo, in questo è il sovrano che deve decidere. Certo, è vero, la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di referendum ha commesso a mio giudizio molti errori, involontariamente, perché chi è stato da quelle parti sa bene quanto fastidio si provava nel giudicare dell’ammissibilità dei referendum. E quanto sia forte il tentativo e quanto vicino ci siamo stati una volta di dichiararli inammissibili in blocco. Te lo ricordi, Piero Alberto, che siamo stati sul punto di dichiararli tutti, regionali e popolari, inammissibili in blocco, rivista bene la Costituzione? E’ vero Piero Alberto questo? C’è questo rischio, inoltre, che poi a votare non ci va nessuno. Che non si fa più un referendum, perché la gente non sa qual è la posta in gioco. È in gioco quale sistema elettorale? Ci sono dei modelli in Europa, che sono l’uninominale a turno unico, a doppio turno, c’è il proporzionale con effetti maggioritari in collegi molto piccoli come in Spagna. Oppure c’è la clausola di sbarramento come in Germania; ma come il nostro non ce l’ha nessuno. Ce lo siamo inventati noi il premio di maggioranza. C’è qualcuno che si è inventato questo premio di maggioranza e adesso deve andare non più alla coalizione ma alla singola lista e ci facciamo sopra un referendum! Solo in Italia succedono queste cose ed io spero che la Corte Costituzionale, in un moto di resipiscenza, riveda un attimino questo problemino dei referendum manipolativi che affligge la democrazia italiana e non la rende una democrazia trasparente.

INTERVENTO DI CESARE PINELLI[13]

Io non credo necessario né utile che i costituzionalisti si pronuncino in questa fase in termini di previsioni su quello che farà la Corte Costituzionale quando si porrà il giudizio di ammissibilità sul referendum. Il nostro compito può consistere, casomai, nel compiere una sorta di attività istruttoria rispetto al giudizio della Corte. Un conto è prevedere, un conto è cercare di capire se il quesito referendario di cui stiamo parlando possa paragonarsi ai precedenti. Su questa premessa di metodo, io credo che non si possa escludere l’ipotesi della inammissibilità del referendum sulla base delle seguenti argomentazioni.

Anzitutto ci si può chiedere se nella giurisprudenza costituzionale l’indagine sul carattere manipolativo del quesito possa esaurirsi nel riscontro formale della sussistenza di elementi già presenti nel tessuto normativo in ordine al quale incide l’abrogazione in via referendaria: se tali elementi sussistono, il referendum è dichiarato ammissibile. A me non pare che sia così, neanche esaminando le sentenze specificamente dedicate a referendum elettorali.

Nel caso del 1993, l’eliminazione delle parole “del 65%” dal testo della legge elettorale del Senato portava, come tutti ricorderete, ad ammettere che nel singolo collegio ottenesse il seggio la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei voti, e, sostanzialmente, a trasformare in maggioritario un sistema che di fatto, vista l’elevatissima quota prevista per l’ottenimento del seggio in prima battuta (appunto il 65% dei voti), funzionava come un sistema proporzionale. Tuttavia, la normativa di risulta era tutt’altro che autoapplicativa, a parte la necessità di modificare contestualmente la legge elettorale per la Camera. E la Corte ne tenne conto nella sua motivazione. E’ appena il caso di ricordare che a partire dalla normativa di risulta le Camere dibatterono a lungo se il sistema maggioritario da introdurre dovesse essere a un turno o a doppio turno (differenza come è noto rilevantissima), e quanti seggi dovessero essere assegnati su base proporzionale.

Nel caso del 1999, il quesito referendario si incentrava sull’eliminazione della quota proporzionale, che determinava come disse la Corte la riespansione di un principio che era già abbondantemente presente nella legge, cioè il 75% di quota maggioritaria. In tal caso, la normativa di risulta poteva senz’altro applicarsi.

Cosa dire del quesito referendario volto all’abrogazione delle parole “coalizione di liste” Il frammento normativo di cui si chiede l’abrogazione in questo caso differisce profondamente dagli altri. Qui ci troviamo in una situazione radicalmente diversa. La regola della legge Calderoli, che poi è l’unico suo brandello di razionalità, è che le liste per ottenere il premio si devono coalizzare. L’eccezione è palesemente un’ipotesi di scuola, cioè è messa lì per dire: se una lista ce la fa a superare eventualmente una coalizione, ebbene allora avrà il premio. Non si sa mai, mettiamoci pure la parola “lista”. Ma in ogni caso, a differenza dei quesiti referendari del 1993 e del 1999, ambedue gli elementi previsti dalla legge (“coalizione di liste” e “liste”) non sono per così dire autonomi: sono sempre funzionali a un terzo elemento, che è il premio.

Conseguentemente, l’eliminazione della parola “coalizione” da un tessuto normativo che si regge sul principio che soltanto le liste che si sono coalizzate hanno il premio, salva l’ipotesi di scuola, non determina alcuna riespansione di un principio implicito, ma modifica profondamente il funzionamento dell’ipotesi di scuola. La quale, semplicemente, non può funzionare come funziona in base al diritto vigente, cioè se una lista è talmente forte da superare una coalizione.

Come funzionerebbe quella che ora è ipotesi di scuola? Si possono immaginare solo due scenari.

Nel primo scenario, rimangono i listoni (ossia liste corrispondenti alle attuali coalizione di liste). Ma se rimangono, quali sono le conseguenze sul premio? Poiché, come si è detto, le parole “lista” e “coalizione di liste” sono funzionali al premio, che rimane in piedi una volta abrogata la parola “coalizione di liste”, e poiché in questo scenario le liste contendibili sono solo due, una delle due liste la maggioranza finirà per averla. E, come in tutte le democrazie del mondo, potrà averla anche con un solo seggio in più in parlamento. Si può sapere, allora, a cosa servirebbe il premio, ossia quale sarebbe la razionalità del premio? Sarebbe un regalo dato alla maggioranza, rispetto al quale l’opposizione legittimamente potrebbe dire: “Perché questo regalo?”. Da quale regola o principio nasce? In realtà, nasce dal fatto che i promotori non potevano fare nulla di diverso, se volevano dare l’impressione di eliminare il fenomeno dell’affollarsi delle miniliste nelle coalizioni. Ma è solo un’impressione, che si sta traducendo in inganno per tanti cittadini che in buona fede corrono a firmare. Questa è la prima ipotesi.

Nella seconda ipotesi i listoni invece si sfaldano, e si formano varie liste. A quel punto, come è stato detto più volte, non si può escludere l’ipotesi di una lista che avendo ottenuto il 30% dei voti prenda 430 seggi, con gravi incognite sul carattere rappresentativo della Camera (il premio regionale al Senato manterrebbe la sua attuale irrazionalità).

È alla luce di questa alternativa che ci si deve a mio avviso interrogare sul carattere della manipolatività del quesito. D’altra parte, il sistema che risulterebbe dall’abrogazione delle parole “coalizione di liste” sarebbe perfettamente autoapplicativo. E voglio vedere i parlamentari all’opera, dopo la vittoria dei sì, a modificare la normativa di risulta: gli eventuali dissenzienti avrebbero dalla loro parte l’arma nucleare di un verdetto degli elettori appena uscito dalle urne che codifica la regola del premio alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti.

INTERVENTO DI ANTONIO ZORZI GIUSTINIANI[14]

Vorrei svolgere alcune sommarie riflessioni “a caldo” sulle tematiche incandescenti che hanno animato il dibattito. Mi pare che la sicumera con cui il professor Ceccanti ha esordito, sostenendo a spada tratta l’ammissibilità tout court dei quesiti referendari vacilli un po’, alla stregua delle molteplici, problematiche sfaccettature del problema, abbondantemente illustrate dagli intervenuti. Personalmente, nutro fortissime perplessità in ordine all’ammissibilità di questo referendum, qualitativamente diverso dalle precedenti consultazioni in materia elettorale. Ritengo, infatti, che l’approvazione popolare soprattutto del primo quesito, per le finalità enunciate dagli stessi promotori (drastica riduzione dei partiti, bipolarismo secco, maggioranza monopartitica, esecutivo di legislatura), avrebbe un effetto decisamente destabilizzante sulla forma di governo, che le precedenti consultazioni referendarie, rigorosamente circoscritte a singoli aspetti del sistema elettorale, non avevano. Il referendum sulla preferenza unica (9 giugno 1991) o quello sul sistema maggioritario del Senato (18 aprile 1993) non contenevano degli elementi “scardinanti”, che, viceversa, potenzialmente racchiude questo referendum.

Il problema della normativa di risulta (la coerenza e immediata applicabilità della normativa residua è stata additata dalla Consulta quale condizione esplicita di ammissibilità del referendum nella sent. n. 32 del 1993) deve in questa occasione impegnare seriamente chi si occupa di ammissibilità, non trattandosi di verificare puramente e semplicemente se i principi della normativa partorita dalla abrogazione referendaria siano “incapsulati” nella legge sottoposta al giudizio popolare. Il “calderolum”, infatti, ha una sua intrinseca coerenza ed il quesito ne manipola il testo in modo da alterarne lo spirito e la ratio. Il trasferimento del premio di maggioranza dalla coalizione di partiti al singolo partito stravolge del tutto la filosofia della legge, al di là di quanto sostenuto da coloro che l’hanno materialmente compilata e che, forse, maliziosamente pensavano già all’ipotesi di una parziale manipolativa abrogazione referendaria della norma che detto premio introduce. Questa semplice constatazione dovrebbe indurre chi esamina l’ammissibilità dei quesiti, in particolare il primo e il secondo, a valutarne i non trascurabili effetti sulla forma di governo.

Infatti, se dovesse realizzarsi il disegno dei promotori, il partito che riporterà la maggioranza relativa dei voti popolari, grazie al premio conseguito, conquisterà il 55% dei seggi alla Camera dei deputati, ottenendo il controllo indiscusso dell’Esecutivo, la cui guida spetterà al candidato premier eletto direttamente nella lista che consegue il premio di maggioranza. Si creerebbero così i presupposti per instaurare un “premierato assoluto” analogo a quello introdotto con la riforma costituzionale del 2005, bocciata dal referendum del 2006, e sicuramente non configurabile come una semplice variante della forma di governo parlamentare. È prevedibile, inoltre, che, in presenza di una insanabile rissosità correntizia interna al partito (o più verosimilmente un cartello elettorale) risultato vittorioso alle elezioni, il Presidente della Repubblica dovrà giocoforza ricorrere allo scioglimento anticipato e indire nuove elezioni. E codesta è una ulteriore riprova che cambierebbe radicalmente la forma di governo! L’iniziativa referendaria, pertanto, si prefigge formalmente la modifica del sistema elettorale, ma di fatto persegue il cambiamento dell’assetto costituzionale, che non può essere modificato con lo strumento del referendum abrogativo disciplinato dall’art. 75 della Costituzione. Nella fattispecie, non si mira ad abrogare sic et simpliciter norme elettorali, determinando la reviviscenza del c.d. “mattarellum”, ma di incidere direttamente sugli assetti costituzionali generali, condizionando altresì un eventuale successivo intervento del legislatore. Per avallare il referendum di Guzzetta, dovremmo accogliere la tesi di Marino Bon Valsassina, il quale nel 1949 (“Referendum” abrogativo revisione costituzionale mutabilità della forma di governo, in Rivista di Diritto Pubblico – La Giustizia Amministrativa, Parte Prima, 1949, p. 83 ss.) sosteneva che il limite alla rivedibilità della forma repubblicana sancita dall’articolo 139 della Costituzione è di fatto superato dalla introduzione del referendum abrogativo, che, a suo dire, quale espressione della volontà popolare, non incontra ostacoli nelle procedure di revisione, non solo quando sia in gioco la modifica della forma di governo, ma anche quando si voglia instaurare una diversa forma di Stato. Siffatta tesi, chiaramente provocatoria ed eversiva, mirava a delegittimare l’opera della Costituente e a rivendicare al popolo un sorta di potere costituente extra ordinem per restaurare la monarchia.

Se l’obiettivo del Comitato promotore è il superamento della attuale forma di governo, a prescindere dal condivisibile giudizio negativo sulla legge elettorale vigente e sulla indifferibilità della sua modifica, a me pare che ci si voglia avventurare sulla china pericolosa della demagogia e del populismo. A mio sommesso avviso, è assai grave che insigni costituzionalisti assumano codeste iniziative. Essi sono infatti ben consapevoli dei limiti propri dello strumento referendario e del carattere smaccatamente manipolativo dei quesiti proposti. La arzigogolata operazione di taglia e cuci tesa a eludere il carattere abrogativo del referendum snatura profondamente l’istituto di democrazia diretta, attribuendo al Corpo elettorale un potere legislativo e di fatto costituente che non gli compete. L’ambiguità della giurisprudenza costituzionale (che tuttavia nella sent, n. 47 del 1991 ha esplicitamente escluso l’ammissibilità di quesiti manipolativi) nella definizione dei principi e dei criteri di ammissibilità dei quesiti referendari in materia elettorale (si pensi alle sent. n. 5 del 1995 e n. 26 del 1997 che hanno dichiarato inammissibili i referendum sull’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei deputati ovvero in entrambi i rami del Parlamento solo facendo leva sulla non immediata operatività del “maggioritario secco” dovuta alla configurazione dei collegi elettorali, nonché alla sent. n. 13 del 1999 che ha ritenuto non manipolativo un analogo quesito referendario destinato a rendere applicabile un criterio residuale contenuto nella legge oggetto del referendum), può verosimilmente aprire dei varchi pericolosi per la delibazione del referendum, ma non può giustificare il ricorso disinvolto allo strumento referendario sia pure in funzione sollecitatoria o di messa in mora del parlamento e della classe politica, confidando sulla permeabilità della Corte a pressioni hobbistiche. La gravità dell’iniziativa consiste nel consapevole uso distorto delle regole costituzionali. Un siffatto approccio a tematiche così delicate e complesse non si discosta granché dalla logica perversa che ha portato il legislatore di centro-destra a concepire e varare la legge incriminata nella convinzione di trarne un vantaggio elettorale. I risultati delle ultime consultazioni politiche ci insegnano, tuttavia, come l’eterogenesi dei fini possa avere ricadute disastrose per chi voglia artatamente truccare le regole del gioco. Si consideri che la modifica per via referendaria della legge elettorale, nella ipotesi non remota di mancata fusione tra forze politiche dei due opposti schieramenti, potrebbe portare all’effetto paradossale di regalare il controllo di uno o di entrambi i rami del Parlamento a una formazione politica di maggioranza relativa (in ipotesi, anche con una percentuale poco significativa di suffragi, non esistendo nella fattispecie nemmeno la soglia del 25% prevista dalla famigerata legge Acerbo!) e di relegare all’opposizione sia i partiti dello schieramento alternativo al partito risultato vincitore delle elezioni, sia quelli politicamente ad esso contigui, ma riottosi e insofferenti della sua posizione egemone. Un siffatto scenario, con buona pace del bipolarismo, determinerebbe una situazione di “rottura” costituzionale senza precedenti. Trovo dunque molto grave che proprio dei docenti universitari di diritto costituzionale, capaci di valutare gli effetti devastanti della loro iniziativa, si siano ingegnati a formulare dei quesiti smaccatamente truffaldini (nel senso che trasformano il referendum da abrogativo in manipolativo), atteggiandosi ad “apprendisti stregoni” per modificare surrettiziamente la forma di Governo, mediante un referendum elettorale che fa leva su pulsioni di tipo populista e che, anziché incanalare costruttivamente la insofferenza verso la politica, alimenta irresponsabilmente un clima di sfiducia verso le istituzioni, lasciando intravedere pericolose scorciatoie costituzionali.

Traete pure le vostre conseguenze da queste sommarie riflessioni e perdonatemi se ho indugiato sugli inquietanti, non improbabili scenari futuri, ma ritengo che questi temi non possano essere ricondotti soltanto ad analisi strettamente giuridiche, che prescindano dagli effetti sistemici della c.d. abrogazione popolare.

CONCLUSIONE DI FULCO LANCHESTER

Vorrei concludere dicendo che sono molto soddisfatto dell’incontro di questo pomeriggio, poiché si è cominciato a discutere – prima o dopo bisognerà farlo, ed è bene lo si faccia subito – e si sono inseriti dubbi nel dibattito e in un pensiero che sembrava essere completamente omogeneo. L’interesse e l’importanza di discussioni come questa, del resto, sta proprio nel fatto che si individuano le varie sfaccettature di un problema e anche l’incoerenza di talune ricostruzioni.

Il problema è dunque, in ultima analisi: che cos’è e cosa fa una Corte costituzionale? Quali sono i suoi compiti? È semplicemente uno strumento di giustizia formale o ha di fronte a sé alcuni valori fondamentali che essa deve tutelare? In proposito, il presidente Chieppa ha sottolineato, assai opportunamente, gli aspetti legati alle funzioni della Corte e del referendum. Vi sono infatti due elementi da tenere presenti: da una parte, il diritto del corpo elettorale di decidere; dall’altra, la funzione della Corte di tutelare l’ordinamento ed i valori costituzionali. Credo si possa dire che è proprio nel contemperamento di questi due elementi (specie in un ambito qual è quello della legislazione elettorale, a proposito del quale lo stesso Presidente Chieppa ha evidenziato una carenza di difesa per il cittadino, a causa del “tappo” che vi è nel ceto politico) che si dovrà rinvenire la soluzione del problema.

Al di là dunque di ogni tipo di partigianeria, posso concludere sottolineando che è proprio su questi due punti, e su questa bipolarità, che abbiamo discusso qui questa sera, cominciando ad analizzare un problema che continueremo a seguire nelle fasi principali della dinamica referendaria che si svolgerà nei prossimi mesi: prossimi mesi, prossimi dibattiti.

[1]Professore ordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato e Preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”.

[2]Già Professore ordinario di Diritto regionale nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, Ministro della Funzione pubblica nei Governi Prodi I, D’Alema II e Amato II, Presidente di Astrid (Associazione per gli Studi e le ricerche sulla Riforma delle Istituzioni Democratiche e sull´innovazione nelle amministrazioni pubbliche).

[3]Professore associato di Diritto costituzionale italiano e comparato nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Siena.

[4]Professore ordinario di Giustizia costituzionale nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza” e Presidente emerito della Corte costituzionale.

[5]Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”.

[6]AncoraProfessore straordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”.

[7]Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”.

[8]Presidente emerito della Corte costituzionale.

[9]Professore emerito di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”.

[10]Professore ordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Napoli “Federico II”.

[11]Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”.

[12]Professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza della “Luiss” e Vicepresidente emerito della Corte costituzionale.

[13]AncoraProfessore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata.

[14]AncoraProfessore ordinario di Diritto pubblico comparato nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa.