Elisabetta Benedetti: Recensione a S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2013, pp. 426

“Diritti senza terra vagano nel mondo globale alla ricerca di un costituzionalismo anch’esso globale che offra loro ancoraggio e garanzia”.

L’opera di Stefano Rodotà, “Il diritto di avere diritti” è una sorta di viaggio, una “narrazione dei diritti”, nella quale si possono scorgere le dinamiche di trasformazione dei diritti tradizionalmente intesi: in un mondo che ha cambiato aspetto, in una società che non si riconosce più in sé stessa, in uno Stato che si scopre orfano di quel baluardo protettivo che era la sovranità nazionale, in ordinamenti che vedono l’operare di poteri che sembrano incontrollabili; tale è il mondo nuovo dei diritti, nel quale si deve continuamente fare i conti con gli altri e nel quale, dovendosi confrontare con modelli diversi, i diritti si reinterpretano di continuo, a volte vedendosi ampliare il catalogo e la portata, a volte vedendosi negata l’esistenza stessa. Pur non potendo sottacere l’inevitabilità di tale andamento contradditorio, resa tale dai tempi nei quali viviamo, un’analisi accurata si rende indispensabile, al fine di evitare che gli individui “non avendo alcun appello sulla terra che renda loro giustizia siano abbandonati all’unico rimedio che rimane in tali casi, cioè l’appello al cielo”.

Nella prima parte del volume si evidenzia quella che Rodotà chiama la “rivoluzione dell’uguaglianza” e che, insieme alla “rivoluzione della dignità”, alla “rivoluzione della tecnoscienza” ed alla “rivoluzione di Internet” dà corpo a quell’insieme di identità individuali, collettive e responsabilità pubbliche che si rendono, se non indispensabili, inevitabili nella nuova era della globalizzazione.

Globalizzazione. Questa è ad un tempo il leit motiv dell’opera e la linea guida da seguire attraverso il percorso tracciato per comprendere l’importanza della necessità di porre attenzione alle situazioni concrete, ai bisogni da proteggere ed ai diritti da tutelare. Questi infatti, secondo l’Autore, scompaiono, si reinterpretano, si impoveriscono e si ampliano allo stesso tempo; inoltre, pericolosamente, si scoprono sprovvisti di quelle tutele un tempo garantite dal solido scudo della sovranità nazionale, correndo il pericolo di essere sottoposti ad un affievolimento nella loro tutela ad opera di azioni promosse in nome della “sicurezza collettiva e dello sviluppo del mercato e dell’economia”. A giudizio dell’Autore i diritti fondamentali sono oggi si guardati con particolare attenzione da quei soggetti, in primis l’Unione Europea, che esercitano la sovranità nello spazio globale ma al contempo esiste un controllo sempre più capillare sugli individui esercitato in nome della loro sicurezza e dunque per ciò stesso da essi accettato.

La logica che muove l’Autore è quella di negare una subordinazione dei diritti a logiche di mercato attraverso quella loro trasformazione che se per un verso è inevitabile perché connaturata all’evolversi della società, dall’altro è vista con timore; si deve, dunque, parlare di una pluralità di diritti, di un patrimonio comune dell’umanità. È in questo senso che occorre leggere l’evoluzione dell’Unione Europea che è passata dall’essere una “Europa dei mercati” ad essere una “Europa dei diritti” soprattutto, ma non solo evidentemente, attraverso la stesura della Carta dei diritti fondamentali. Qui viene relegata in un cono d’ombra la tradizionale catalogazione dei diritti per generazioni per approdare alla proclamazione degli stessi quali “indivisibili” , siano essi civili, sociali, politici. Il Preambolo identifica quello che Rodotà chiama il “costituzionalismo dei bisogni”: l’Unione Europea, ponendo al centro la persona, si allontana dal passato contesto nel quale i diritti erano riconosciuti solo formalmente per giungere ad uno stadio più avanzato nel quale le azioni, attuative di questi, si affiancano necessariamente alla proclamazione nelle Carte. […]

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