Per un giuspubblicista di fine Ottocento inizio Novecento, protagonista della vicenda giuridica è lo “Stato moderno”, poderosa costruzione eretta per razionalizzare i giuridici accadimenti e storicizzarne il fluire, situata all’intersezione tra un passato inteso come tradizione ed il futuro come progresso.
E sullo “Stato moderno” si cimentò, con un saggio del 1901 recante appunto quel titolo, l’allora trentenne Presutti, declinando siffatta ‘modernità’ con una formulazione a tratti originale, che aggiornava quella resa dalla giuspubblicistica corrente.
La modernità dello Stato moderno era ravvisabile a suo avviso in alcuni distintivi elementi, tra i quali rilevava non tanto la volontà o personalità dello Stato (espressioni le quali “non sono che similitudini, di guisa che ci ottenebrano la vista della vera essenza”) bensì la sua dimensione associativa, quale grande comunità politica; dunque, la profilatura comunitaria della sovranità, pur nella irriducibilità di una distinzione tra governanti e governati, secondo lezione moschiana.
Presutti coglieva una ripercussione ‘virtuosa’ (benché raffigurata dallo studioso con qualche meccanicismo) del grado di differenziazione ed eterogeneità dei gruppi sociali, sulla vita dello Stato; nonché il carattere storico della formazione ed organizzazione dei gruppi sociali, in un processo in più fasi (dalla ribellione del singolo individuo alla setta, al partito politico, infine alla classe sociale), come evidenziava la vicenda degli operai della grande industria (i quali erano allora in Spagna, setta; in Italia, partito; in Inghilterra classe, almeno gli operai qualificati). […]
Luca Borsi, La parabola dello Stato moderno e la riflessione di Presutti
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