Arianna Gravina Tonna, Recensione a F. D’Alto, La capacità negata. Il soggetto giuridico femminile nella giurisprudenza postunitaria, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 170.

Se esiste un fenomeno dotato di particolare continuità storica nell’avvicendarsi degli ordinamenti occidentali è quello della struttura giuridica della famiglia. Ne dà una prima prova l’etimologia, vera scienza delle radici, la quale testimonia come il termine stesso ‘famiglia’ (da famulus, servo, domestico) afferisca originariamente al complesso dei servi della casa, tra cui rientravano la moglie e i figli del pater familias. L’antica famiglia agnatizia manteneva il suo carattere patriarcale e di linearità maschile, genus politico dell’antica società romana, principalmente attraverso l’istituto del matrimonio e la disciplina della filiazione. Il controllo normativo e, quindi, la garanzia sociale apprestati dal diritto dei primordi sul fatto familiare sono stati preludio di una costanza protrattasi nella nostra tradizione giuridica sino all’era della codificazione e interrotta solo, dal punto di vista formale, con la Costituzione repubblicana.

Il costituzionalismo ottriato che sostenne lo Statuto albertino del 1848 e il successivo codice civile del 1865 conservava in sé, invero, una matrice illiberale: tale aspetto si mostrava, in tutta evidenza, proprio con la disciplina del matrimonio e della filiazione. Il volume in commento, con un attento studio della casistica giurisprudenziale dell’epoca, delinea efficacemente i tratti dello iato esistente sia tra il sostrato ideologico del codice e le norme in esso inscritte, sia tra il sistema normativo e la sua vita innanzi ai giudici. Entrambi i profili, ossia quello normativo e della giurisprudenza, risultano rappresentativi di come l’intento dei codificatori e degli interpreti fosse sostanzialmente di ‘reazione’ e non di traduzione delle trasformazioni acquisite dalle società europee a seguito della Rivoluzione del 1789, permettendo di considerare la prima esperienza codicistica italiana – almeno in riferimento alla condizione giuridica delle donne – come ‘formalistica’, laddove il formalismo è inteso come una frattura dell’esperienza giuridica, come ebbe a dire Salvatore Satta nel suo Il mistero del processo. I contorni di tale incongruenza emergevano, anzitutto, nel codice stesso: se, in tema di capacità giuridica, infatti, “le donne […] appa[riva]no, nel nuovo stato italiano, finalmente parificate agli uomini”, in quanto pari “ai loro fratelli in tema di successione e quando si sposa[va]no (art. 147)” nonché “una volta maggiorenni, [era]no pienamente capaci se resta[va]no nubili o se per disgrazia riman[eva]no vedove (art. 220)” (cit. p. 11), tale capacità giuridica si eclissava in modo puntuale […]

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