Pietro Giuseppe Grasso, Danilo Castellano, Considerazioni brevi sulla riforma della Costituzione promossa dal Governo

Fra i cultori del  diritto pubblico appare diffusa l’attenzione per il disegno di legge costituzionale n. 1429-B Senato, pubblicato in “Gazzetta ufficiale” n. 88 del 16 Aprile di quest’anno 2016, proposto dal Governo, poi approvato dalle Camere del Parlamento, secondo l’art. 138 Cost. È previsto nei mesi prossimi lo svolgimento del referendum confermativo su richiesta di una frazione di elettori. Nel testo di tale disegno di legge è contemplata la riforma integrale della parte seconda della stessa Costituzione, comprendente le regole sul Governo della Repubblica, quindi sull’organizzazione dei pubblici poteri. Fuori dalle pretese di novità sono lasciate le disposizioni concernenti i principî generali, i diritti e i doveri fondamentali, comprese negli articoli da 1 a 54 della medesima carta repubblicana. Chiara riesce quindi l’intenzione di mantenersi nel contesto delle ideologie del costituzionalismo liberaldemocratico, perseguita  dai riformatori dell’oggi.

Stando a un insegnamento autorevole, nei Paesi dell’Europa occidentale, per le costituzioni scritte soprattutto importante è stabilire un buon modello di organizzazione, appropriato secondo gli aspetti effettivi di un determinato Paese, posto che la parte concernente i diritti fondamentali permane sostanzialmente comune anche per più ordinamenti.

È da rilevare, in ogni modo, che proprio l’intenzione di mantenere detta continuità, al presente, va incontro a taluni aspetti problematici che non sussistevano nel 1946, allorquando fu convocata l’Assemblea costituente. Le concezioni teoriche del passato erano fondate sulla premessa secondo che la costituzione scritta era da ritenere come parte essenziale e primaria dell’ordinamento di uno Stato, conforme ai paradigmi del diritto positivo attuato fra i popoli dell’Europa continentale. In tal senso erano contenute espressioni anche nei testi ufficiali: per esempio, in termini analoghi a quanto già enunciato nello Statuto albertino, alla XVIII delle “Disposizioni finali e transitorie”, la Costituzione risulta auto-definita come “legge fondamentale della Repubblica” [italiana]. È appena da ricordare che, nel linguaggio usuale del 1947, la parola repubblica stava a designare una fra le “forme di governo”  proprie dello Stato moderno.

Da quanto sopra rilevato consegue che gli insegnamenti e i concetti un tempo riguardati come classici riescono problematici, quando s’intenda riproporli per la comprensione della realtà contemporanea. Lo Stato ha perduto i suoi storici caratteri, presupposti nelle costruzioni teoriche più seguite: nei fatti riuscirebbe improprio parlare di ordinamento affatto indipendente e sovrano, abilitato a provvedere a tutte quante le necessità collettive di un gruppo sociale fisso stabilmente su di un territorio proprio, sotto un comune governo.

Dal decadere di quei caratteri sono derivate le attività rivolte alla formazione di un più esteso ordinamento continentale europeo, adeguato a sostituire gli Stati nelle funzioni necessarie alla convivenza politica di un gruppo sociale numeroso. I disegni di fondare unità politiche di maggior estensione sono però ancora ben lontani dal compimento. Ammesso che in futuro abbiano a seguire itinerari compatibili coi termini della dottrina classica, ai riformatori si proporrebbe il quesito se la futura Costituzione della Repubblica italiana sarà da considerare la legge fondamentale di uno Stato indipendente e sovrano ovvero di uno Stato membro di uno Stato federale, più esteso e comprensivo. Introdurre una costituzione scritta conformata ai canoni del tempo che fu, piuttosto che una soluzione potrebbe pure dimostrarsi fatica inutile, con tutto da ripetere. Anche per il caso torna utile richiamare l’assunto secondo che conoscere il proprio tempo è essenziale a coloro che intendono escogitare paradigmi e strumenti istituzionali adeguati per il presente e per il futuro. […]

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