Gino Scaccia, Democrazia a sorte: problemi e opportunità

Ringrazio il deputato Vacca per avermi offerto l’opportunità di confrontarmi con il tema oggetto del libro che presentiamo, al quale confesso di essermi accostato con una diffidenza dettata dalle strutture mentali – o se volete dai pregiudizi – che si sono venuti stratificando nel corso della mia formazione costituzionalistica e che invece si è rivelato una lettura sorprendentemente feconda.

Il primo quesito che mi ha suscitato la proposta eretica, se non addirittura rivoluzionaria che nel libro si espone, attiene alla sua motivazione politica. Da dove nasce l’esigenza di immaginare un sistema di formazione della rappresentanza politica parzialmente dettato dal caso, dunque da elementi imprevedibili e perciò contrari all’esigenza di calcolabilità e razionalità che pervade il diritto e ne forma l’ossatura? Perché tornano di attualità modelli di designazione dei rappresentanti del popolo che hanno caratterizzato epoche storiche lontanissime (dalla Grecia classica alla Serenissima Repubblica di Venezia) e che, dopo la rivoluzione francese e lo sviluppo dell’idea di rappresentanza politica democratica fondata sul voto libero ed eguale, sembravano definitivamente consegnate all’archeologia istituzionale? La risposta la fornisce una cruda e disincantata diagnosi sullo stato della democrazia parlamentare in Italia e più in generale negli ordinamenti dell’Occidente europeo. La crisi della rappresentanza politica, l’incapacità di questa di dare voce alle molteplici e variegate istanze presenti in una società accentuatamente pluralista è documentata dalla letteratura politologica e costituzionalistica – con incessante attenzione – almeno da un trentennio, e pare irreversibile, per il venire meno delle condizioni storiche e sociali su cui riposava l’egemonia dei partiti sulla società e la conseguente coincidenza della partecipazione politica democratica con l’attività di partito o delle istituzioni e associazioni ad esso collaterali. I partiti hanno perso la loro funzione pedagogica e di integrazione delle masse popolari nella vita politica statale e appaiono per lo più ridotti a comitati elettorali, verticalizzati attorno al leader del momento e generalmente capaci di coinvolgere attivamente solo “politici di professione”, che nel partito vedono non tanto il luogo della partecipazione democratica, quanto – prosaicamente – il loro unico datore di lavoro. Nello specifico della vicenda italiana, a questa generale, riconosciuta situazione di crisi della democrazia parlamentare e della rappresentanza politica si sta reagendo non già con l’apertura di nuovi e inediti canali di partecipazione democratica, ma piuttosto con l’arroccamento ulteriore del sistema partitocratico su classi dirigenti ristrette ed autoreferenziali e con la riduzione della stessa dialettica istituzionale interna ai rapporti fra Governo e Camere. Senza potermi dilungare sul punto, basti osservare che la nuova legge elettorale (il cd. Italicum), a meno di modifiche dell’ultima ora, porterà alla formazione di un Parlamento composto per circa due terzi da “nominati”, nonostante la Corte costituzionale, con la celebre sentenza n. 1 del 2014, abbia annullato la legge elettorale precedente (il c.d. Porcellum) proprio rilevando, tra l’altro, che non era stata preservata la libertà di scelta degli elettori. Historia non docet, verrebbe da dire: la storia non sta insegnando nulla ed è scontato che, dinanzi a questa sordità dei soggetti politici dominanti rispetto alle istanze di rinnovamento che si levano dalla società, la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e la loro estraneazione dalla vita politica tendano ad aumentare. Quando però la società si sente sotto o male rappresentata dalla classe politica istituzionalizzata, quando la sfiducia nella delega parlamentare diviene generalizzata, è naturale che fioriscano proposte di revisione o correzione delle forme della rappresentanza politica.

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