Francesco Compagna, La Corte europea dei Diritti dell’uomo fra inviolabilità dei principi di garanzia e conseguenti esigenze di riforma del sistema sanzionatorio

Se è a tutti evidente come la funzione della Corte europea dei diritti dell’Uomo a tutela di alcuni principi fondamentali si sia andata manifestando, negli ultimi anni, in maniera sempre più incisiva, lo straordinario ruolo propulsivo recentemente assunto dalle sue decisioni sul piano politico-costituzionale, tale da circoscrivere la tradizionale sovranità nazionale in ambito penalistico, sembra essere stato colto solo da una parte della dottrina.

Almeno in una prima fase, le decisioni di un giudice internazionale di “ultima” ed “eccezionale” istanza, chiamato ad esprimersi sulle violazioni invocate dai cittadini all’esito del fallimento dei rimedi giurisdizionali interni, erano parse destinate ad assumere un taglio eminentemente casistico e riparatore, come tale assai più prossimo al tema dell’errore giudiziario che non a quello del giudizio di legittimità costituzionale.

Proprio la tendenza a valorizzare le peculiari circostanze fattuali rinvenibili nelle singole vicende rendeva assai difficile qualsiasi generalizzazione della violazione accertata, nell’ambito di un continuo bilanciamento fra esigenze contrapposte, meritevoli di un’attenta ponderazione in concreto e non suscettibili di determinare delle soluzioni normative di carattere definitivo.

In Italia, il più ampio settore di applicazione della tutela “europea” dei diritti umani è stato del resto costituito dall’ingiusta durata del procedimento, ovvero da un problema terribilmente pratico, in quanto direttamente legato alle concrete modalità di funzionamento dell’amministrazione della giustizia piuttosto che al dato normativo.

In una direzione non troppo dissimile sembrava inizialmente condurre anche l’acceso dibattito sviluppatosi nel nostro paese sul valore da attribuire alle sentenze della Corte EDU attestanti una violazione delle regole del fair trial, dibattito che ha inevitabilmente investito il tema della revisione del processo penale dichiarato “iniquo”, dapprima per il tramite di alcune proposte di legge non coronate da successo ed infine con l’importante pronuncia della Corte Costituzionale n.113 del 2011 che ha integrato l’art.630 c.p.p. con una nuova specifica ipotesi di revisione tesa per l’appunto al superamento del processo viziato dalla violazione di un diritto fondamentale.

Tuttavia, è proprio grazie a tale pronuncia additiva – le cui ragioni “immediate” sono ovviamente da ricondurre alla doverosa “liberazione” di una persona condannata sulla base di un processo ingiusto- che la Corte Costituzionale è giunta ad affermare solennemente una insuperabile esigenza di coerenza ordinamentale, tale da richiedere l’elisione dello stesso profilo dichiarativo della sentenza di condanna e non già la semplice interruzione delle sue conseguenze sanzionatorie.

Diversamente da quanto avviene nel diritto privato, caratterizzato dalla generale ammissibilità del rimedio risarcitorio quale fonte di risoluzione di ogni controversia, il diritto penale manifesta infatti la necessità di una completa e tempestiva rimozione della violazione riscontrata, con conseguente immediata armonizzazione dell’ordinamento giuridico interno alla decisione della Corte dei diritti anche a discapito dell’intangibilità della res giudicata.

Il doveroso superamento del giudicato penale nascente dall’accertata violazione dei principi processuali enunciati dalla Convenzione è stato più recentemente esteso anche all’ipotesi di violazione di principi di natura sostanziale, e segnatamente in caso di mancato rispetto del principio di legalità, con conseguente valorizzazione del ruolo attribuito al giudice dell’esecuzione in termini di revoca o di adeguamento della ingiusta sentenza di condanna.

Mentre le prime pronunce della Corte EDU apparivano finalizzate ad una tutela prevalentemente dichiarativa e risarcitoria, la più recente giurisprudenza europea ha invece assunto in questo modo una portata assai più ambiziosa, in quanto destinata a sottolineare con forza che il rispetto dei principi enunciati dalla Convenzione costituisce il presupposto ed il limite di una legittima pretesa punitiva da parte dello Stato e che ogni possibile disallineamento deve essere immediatamente rimosso.

In questo quadro, all’evidente valore simbolico di una tale ricostruzione è poi conseguita, in termini assai più concreti, l’esigenza di porre rimedio alla violazione rilevata dalla Corte non soltanto con riferimento alla specifica vicenda da essa esaminata, ma anche in relazione ai casi analoghi.

Una volta venuta meno l’intangibilità del giudicato, la valorizzazione del ruolo attribuito al giudice dell’esecuzione ai fini del ripristino del diritto violato ha pertanto aperto la strada ad un generale recepimento ex post della giurisprudenza europea, con conseguenze assolutamente straordinarie in termini di effettività della tutela. […]

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Di seguito si riporta il sommario dei saggi: 1. I nuovi percorsi di adeguamento interno alle decisioni della Corte di Strasburgo in ambito processual-penalistico: la revisione del processo iniquo e la rimozione del giudicato illegittimo 2. L’accertamento di una determinata violazione dei diritti fondamentali da parte della Corte EDU come fonte di un possibile giudizio di legittimità costituzionale ex art.117 Cost. 3. La fondamentale funzione politico-costituzionale svolta dalla Corte EDU nel contesto penalistico italiano ed europeo 4. La dichiarata illegittimità del doppio binario sanzionatorio come complessiva remise en cause del sistema afflittivo 5. Le due questioni attualmente sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale 6. La spinta riformatrice proveniente dalla giurisprudenza europea e l’auspicabile razionalizzazione dell’ordinamento penalistico in ossequio ai principi del ne bis in idem processuale e sostanziale

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