Simone Ferraro, Recensione a L. Miles, A. Wivel (Edited by), Denmark and the European Union, London, New-York, Routledge, 2014, pp. 280

Il volume scelto per questa recensione sembra offrire immediatamente soltanto una opportunità d’indagine tecnica, specifica, cioè, delle tecniche e degli strumenti d’attuazione del Diritto dell’Unione Europea applicati alle esigenze funzionali, interne ed esterne, dell’organizzazione amministrativa dello Stato danese e della divisione di attività tra i suoi diversi organi costituzionali in relazione all’indirizzo politico in esso predominante. Per contro è altrettanto possibile, utile ed anzi pregiudizialmente necessario notare come precisandone in maniera positiva l’oggetto la delimitazione del discorso proposta si presti parimenti ad una sua interpretazione teleologica, riguardando la sua finalità informativa la costruzione di misure condivise e di politiche democratiche all’interno delle Istituzioni europee. La Danimarca è uno Stato membro dell’Unione da 41 anni; a dispetto di ciò la sua popolazione, il suo ceto politico e la sua classe dirigente continuano ad mantenere nei confronti di molti fondamentali aspetti del processo di integrazione europea un atteggiamento apparentemente scostante. Sebbene sia ampiamente riconosciuto come quasi tutti i settori della politica danese abbiano sviluppato e integrato una sorta di ‘dimensione europea’, e che questo possegga un tasso di adempimento degli ‘obblighi’ derivanti dal Diritto Europeo tra i più alti di tutta l’Unione, viene ancora ampiamente considerato come dissonante al suo interno; per argomentare questa affermazione solitamente vengono citati la difesa dei ‘bastioni’ politici rappresentati dai suoi opt-out (‘rinunce’, originate dal compromesso nazionale che nel dicembre 1992 portò all’accordo di Edimburgo ed al suo espresso inserimento all’interno dei Trattati, alla partecipazione nelle strutture comuni nei campi dell’UEM, delle dichiarazioni riguardanti la cittadinanza europea sancite dal Trattato di Amsterdam, della Giustizia ed affari interni, e del PESC), ed la contestazione politica manifestata – a volte anche veementemente- nei confronti dello sviluppo istituzionale dell’Unione europea. Ma, allo stesso tempo, l’elettorato danese, e la partecipazione registrata alla recente tornata elettorale europea conferma questa tendenza, continua ad essere tra i più positivi verso l’adesione all’Unione Europea; a questo va aggiunto che in base ai sondaggi riportati in questo volume l’opinione pubblica sembra mostrare uguale favore anche nei confronti delle decisioni da questa intraprese. Questi dati, piuttosto che essere considerati come le prove di una ‘doppia personalità’, possono essere visti come il riflesso di un equilibrio pragmatico tra la conservazione di autonomia nazionale e di massimizzare la propria influenza attraverso l’impegno istituzionale? È questo un esempio di come piccoli e rispettabili stati possano, influenzandone le ‘piccole’ decisioni giorno per giorno, essere in grado di superare i limiti ad essi imposti nella statuizione delle priorità all’interno dell’agenda di governo europeo? Nel volume la coerente ed accessibile analisi, operata grazie ai contributi di esperti provenienti da diversi ambiti disciplinari, degli aspetti giuridici, politici, ed amministrativi dell’appartenenza danese all’UE cerca di spiegarne la traiettoria futura, le sue radici, ed le attuali decisioni dei responsabili politici danesi in materia, ma il risultato di questa operazione ne tracima gli obiettivi. Lo sviluppo dei ragionamenti operati delinea efficacemente non solo il particolare caso di studio ma contribuisce a fissare, al pari di punti fermi, le caratteristiche formanti una precipua modalità relazionale di leale collaborazione tra le parti; quella che, affiancandosi al ruolo ricoperto dagli Stati definibili come decision taker, seguendo quella che nel testo viene rinominata come smart state startegy, cercando di imparare dall’esperienza, conduca all’assunzione delle funzioni di decision maker. […]

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