Raffaele Romanelli

Unico non giurista in questa tavola rotonda, tendo a guardare al nostro tema dall’esterno, evitando il dibattito dottrinario. E comincio con l’osservare che il rapporto tra giuristi e politica – da sempre, da che esistono i giuristi e da che esiste la politica – è per sua natura assai stretto, «osmotico», come ha detto Giuliano Amato. Nel nostro caso, ci domandiamo come si sia configurato quel rapporto nella costruzione della carta costituzionale, quale sia stato il contribuito dei tecnici del diritto. Con una avvertenza però, che se i due saperi – quello tecnico-giuridico e quello politico – sono in dottrina distinguibili, non così accade per i loro protagonisti.

E non solo perché tutti i giuristi costituenti più influenti, da Mortati a Calamandrei, da M.S.Giannini a Moro a Dossetti a Perassi non possono essere considerati «esperti», «prestati alla politica» come oggi si dice, e militavano in un partito, ma anche perché la componente tecnico-erudita del dibattito costituente si andò stemperando via via che dai lavori preparatori e della commissione dei Settantacinque al comitato dei Diciotto si è passati al confronto in aula, dove non solo è prevalsa la politica, ma gli stessi giuristi si sono presentati tout court come politici. Ma fatta questa premessa, di quali giuristi stiamo parlando? Oggi si pensa soprattutto ai cultori di diritto costituzionale, ai costituzionalisti. Ma qui, soprattutto i più giovani presenti devono por mente al fatto che il settore disciplinare, quello del diritto costituzionale, più che artefice della Costituzione, ne è a tutti gli effetti un prodotto. L’orizzonte dei costituzionalisti, il loro paradigma disciplinare, è tutto interno alla costituzione repubblicana, successivo alla sua promulgazione, e da sempre impegnato ora a riformare, ora difendere la Carta. Lo mostra la storia dei ranghi accademici, dei commentari, delle riviste di settore. Nascono nel dopoguerra la “Rassegna di diritto pubblico”, la “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, […]

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