Francesca Rosignoli, Recensione a L. Violante, “Politica e menzogna”, Torino, Einaudi, 2013, pp. 157.

Il problema della menzogna nella politica è un problema certamente molto antico: del mito della “nobile menzogna” parlava già Platone nella Repubblica e con estrema lungimiranza anche i Sofisti avevano osservato che l’importanza del consenso nella democrazia implicava il primato dell’opinione, l’indebolimento della nozione di verità, e dunque la possibilità della menzogna come arma politica. Con il recente volume Politica e menzogna edito da Einaudi, Luciano Violante vuole dare rilevanza a questo problema evidenziando gli aspetti che legano la politica e la menzogna in una stretta convivenza  anche e soprattutto nella storia contemporanea e nell’attualità. La menzogna viene pertanto assunta da Violante come paradigma interpretativo di tutti gli aspetti patologici della politica, che vengono analizzati in modo capillare attraverso la comparazione di fatti antichi e recenti, nazionali e internazionali, tramite un costante parallelismo tra le democrazie contemporanee e i totalitarismi del Ventesimo secolo.

Se la menzogna costituisce dunque una “malattia“ della politica ci si potrebbe domandare se questa sia una “malattia genetica”, presente fin dalle origini. Romolo e Remo, Caino e Abele sono solo alcuni esempi emblematici e simbolici che ci ricordano come l’atto fondativo delle città, delle nazioni, degli stati e in un certo senso anche delle religioni, sia non soltanto un atto di creazione, ma anche un atto di violenza e di menzogna; ci si potrebbe chiedere, cioè, se fin dall’inizio la politica, che prevede l’uso della menzogna, si differenzi in tal modo dall’etica. Ma l’autore sceglie di non trattare sistematicamente la genesi del problema, immaginando invece una situazione di partenza in cui la menzogna semplicemente c’è, esiste, e nella quale la domanda che bisogna porsi è fondamentalmente la seguente: è lecito mentire? Il riferimento dell’autore è il dibattito tra Immanuel Kant e Benjamin Constant che si era sviluppato a partire dal trattato di Benjamin Delle relazioni politiche a cui Kant rispose con Su un presunto diritto di mentire per amore dell’umanità.

La differente visione dei due filosofi consiste nel fatto che mentre secondo Kant mentire è sempre illecito perché le menzogne renderebbero impossibile la fondazione della società; per Constant, invece, la verità è un dovere solo nei confronti di chi ne ha diritto: esiste dunque una legittima menzogna. In realtà, ricorda Violante, entrambi i filosofi sono stati sconfitti dalla successiva storia politica, storia nella quale si sono distinte diverse tipologie di menzogne, rivolte indistamente agli aventi e ai non aventi diritto alla verità, che egli classifica nel modo seguente: menzogne assolute, strategiche e tattiche.

Per quanto riguarda le menzogne assolute, espressione con la quale si fa riferimento a grandi sistemi di potere fondati su grandi menzogne, l’autore cita due esempi: la fondazione del potere temporale del papato, avvenuta sulla base di un documento falso – la donazione di Costantino (Constitutum Constantini) – e il presunto piano di conquista del mondo da parte della comunità ebraica, attestata dai finti Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un falso storico frutto, in verità, della fantasia di un romanziere tedesco antisemita.

Le menzogne strategiche, invece, sono tali perché si inseriscono in un “contesto di scelte politiche generali che riguardano il paese”. Esse prescindono dall’interesse personale essendo, viceversa, inerenti all’interesse nazionale. Tra le bugie più famose appartenenti a questa categoria, Violante analizza tre casi: il caso Roosevelt, il caso Powell e il caso Blair. Nel primo, Roosevelt mentì sull’entrata in guerra degli USA nella seconda guerra mondiale per assicurarsi l’elezione come presidente degli Stati Uniti; negli altri due casi, invece, la menzogna riguardò il possesso, da parte dell’Iraq, di armi di distruzione di massa (bugia che servì a giustificare la prima guerra del Golfo). Rispetto a questo tipo di menzogna, che tende solitamente a “trasformarsi in una strategia della menzogna”, poiché richiede una concatenazione di bugie che rendano credibile il falso originario, devono essere distinte la menzogna diretta a tutelare il politico che versa in condizioni di difficoltà – giustificata da fini personali, quale, per esempio, di difendere la propria reputazione politica (come nel famoso caso Watergate) – e quella diretta all’occultamento delle responsabilità, com’è avvenuto nell’Italia degli anni Settanta per sviare le indagini sulle stragi – piazza Fontana, via d’Amelio e l’omicidio di Aldo Moro sono forse i casi più eclatanti sui quali si sofferma l’autore. […]

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