Francesca Rosignoli, Recensione a G. Zagrebelsky, Fondata sul Lavoro, Einaudi, Torino, 2013, pp. 70

Proprio nel 2013, anno in cui la crisi economica dell’ultimo quinquennio (2008- 2013) ha provocato un incremento vertiginoso della disoccupazione – sono oltre 26,3 milioni gli Europei disoccupati nel febbraio 2013, cioè 10,2 milioni in più rispetto al 2008 – esce Fondata sul lavoro, il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky che riporta al centro dell’attenzione l’art.1 della Costituzione italiana.

Con questo breve saggio, che racchiude il testo della lectio magistralis che il costituzionalista ha tenuto al Teatro Carignano di Torino in occasione dell’evento “la Repubblica delle idee”, l’autore sembra rispondere a una frase pronunciata dall’ex ministro del lavoro rispondere a una frase pronunciata dall’ex ministro del lavoro Elsa Fornero, che, in un’intervista al Wall Street Journal del 2012, rilasciò la seguente dichiarazione: “Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio”. Frase che sollevò molte polemiche e accesi dibattiti proprio in merito alla natura giuridica del diritto – o non diritto – al lavoro.

Per analizzare l’art.1 della Costituzione e per chiarire, dunque, il significato del lavoro quale principio supremo sul quale essa si fonda, Zagrebelsky ripercorre innanzitutto la storia del costituzionalismo moderno e il modo in cui il significato del lavoro è stato, di volta in volta, interpretato.

Come ricorda l’autore, il costituzionalismo moderno ha inizio con la Restaurazione liberale avvenuta subito dopo la Rivoluzione francese e l’età napoleonica, Rivoluzione che aveva avuto la pretesa di scardinare la concezione liberale della naturale divisione della società tra coloro che sono “padroni di se stessi”, ovvero che vivono di profitto o di rendita, e coloro che non lo sono, poiché lavorano per vivere e dipendono da un salario. Questa divisione non era cosa di poco conto, poiché dall’appartenenza all’una o all’altra categoria dipendeva la partecipazione alla vita politica.

Infatti, dal momento che la partecipazione piena alla vita della città, in una società libera, può spettare solo a uomini liberi, dunque solo a coloro che sono padroni di se stessi, “il costituzionalismo, come dottrina politica”, scrive Zagrebelsky, “nasce con questo marchio classista che innanzitutto l’oppone alla democrazia, il cui ideale è la libertà e la partecipazione di tutti a una vita politica comune”.

La domanda che si pone il costituzionalista è allora la seguente: com’è avvenuto il rovesciamento per il quale l’essere lavoratore, inizialmente criterio di discriminazione rispetto alla vita politica, è divenuto “fondamento della vita comune, della res publica” e dunque principio di inclusione? La spiegazione di tale rovesciamento si rinviene, com’è noto, nell’ascesa delle masse popolari, cioè del mondo del lavoro, alla vita politica e l’accesso alle sue istituzioni. Questo passaggio, da principio di esclusione a principio di inclusione nella cittadinanza, ha pertanto reso possibile la diffusione della democrazia, sia nella sua dimensione politica che in quella sociale.

Nella Costituzione vigente, infatti, il lavoro, “primario trai beni primari”, “è stato accolto come fondamento della democrazia repubblicana”. Tale riconoscimento del lavoro come fondamento della res publica, della cosa o della casa comune, oltre a testimoniare una indubbia rivalutazione del valore sociale del lavoro, rappresenta il compimento d’un processo storico d’inclusione nella piena cittadinanza, nel quale, sottolinea Zagrebelsky, “non si è verificato alcun ribaltamento dei rapporti di classe”. Vi è stata infatti un’inclusione, non una rivoluzione.

Non a caso, invero, nella Costituzione è scritto che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e non sui lavoratori. La scelta dei padri costituenti, infatti, che preferirono la prima espressione rigettando la seconda, è giustificata dal fatto che essi non volevano costituire un regime economico “collettivistico”: la Repubblica democratica non è fondata “sulla classe lavoratrice”, nel significato proveniente dalla storia delle moderne “lotte di classe”, bensì sul “lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”. […]

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