Enrico Campelli, Recensione a R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Milano, FrancoAngeli, 2018, pp. 146

In un momento di generale arretramento dello Stato liberale costituzionale nei confronti di un populismo di certo non nuovo, ma mai così forte, la dottrina non può evitare di fare i conti con un necessario ripensamento del corpus filosofico giuridico della teoria dei diritti al fine di delinearne più accuratamente la natura ed i confini. È in quest’ottica che va analizzata l’opera di Roberto Bin, Critica della teoria dei diritti, FrancoAngeli, 2018, scritto accurato e non sempre semplice, in cui l’Autore procede ad un’attenta analisi degli aspetti centrali della teoria dei diritti, riuscendo in una interessante opera di scomposizione e ricostruzione.

Con un intento dichiaratamente critico, l’Autore comincia il suo ragionamento scagliandosi contro le classificazioni classiche dei diritti, e in particolare contro la distinzione tra libertà e diritti come due categorie separate, risalente alla rivendicazione del diritto al lavoro della rivoluzione francese del 1848. Utilizzando le parole di Giuliano Amato e della sua celebre monografia sulla libertà personale, Bin ribadisce che “per le libertà è necessario guardare non tanto ai contenuti, ma agli strumenti con cui vengono limitate; per i secondi (i diritti) è vero l’esatto opposto, in quanto la loro origine sta in pretese specifiche (sicurezza, salute, istruzione, etc.) a cui corrispondono specifiche prestazioni fornite dagli apparati pubblici” (p.10). Concentrando la propria critica specialmente sulle distinzioni tra diritti liberali e diritti sociali, diritti negativi e positivi e diritti che costano e che non costano, Bin afferma che le contrapposizioni tra diverse generazioni di diritti, “ sono contrapposizioni prive di alcuna forza analitica, fortemente intrise di ideologia” (p.10) e rilevanti solo in una prospettiva storica […]

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