Carlo Chimenti, Sulla riforma elettorale e su quella del Senato

Governo Renzi è nato, come dicono i suoi supporters, per “riformare”; anche se questa espressione – ricordando che esiste, e non solo in ambito giudiziario, la “reformatio in pejus” – può, nella sua genericità, risultare inquietante. Vero è che da noi, visto che peggio di come siamo ridotti è difficile diventare, ragionare diversamente è lecito; ma fino ad un certo punto… Comunque, il Presidente del Consiglio ha espresso la sua volontà riformatrice con una determinazione del tutto inconsueta dalle nostre parti: ossia ripetendo ai parlamentari, un giorno si e l’altro pure, “se non approvate le mie riforme, io me ne vado e tolgo il disturbo” (dove il punto debole sta, forse, nel trascurare la morale della celebre favola di Esopo sul pastorello che gridava “al lupo, al lupo”, e alla fine non gli credette più nessuno). Ad ogni modo, le principali riforme governative sono cinque: elettorale, del Senato (ossia del bicameralismo), delle autonomie, della P.A. e del lavoro. Ma direi che, prima ancora di esse, c’è un’altra riforma che il Governo persegue: quella della politica. Giacchè questo Governo, a differenza di tutti i precedenti, tende a rapportarsi direttamente coi cittadini, saltando le rappresentanze politiche, sindacali, categoriali ecc. e le relative mediazioni. Personalmente, io dubito che tutto questo sia saggio, stante il basso livello medio che caratterizza, secondo me, il nostro elettorato (pensate all’evasione fiscale massiccia, al familismo amorale, alla furbizia preferita all’onestà ecc., secondo certi connotati italieschi, noti fin dai tempi di Leopardi).

Però, la crisi della rappresentanza è innegabile (e non solo in Italia); e questo spiega una qualche propensione per la democrazia diretta, la quale omette, appunto, le mediazioni fra cittadini e potere: sono anni, del resto, che molti osservatori denunciano da noi la “partitocrazia” come degenerazione del sistema partitico (e la “concertazione” come malattia del rapporto Governo-Sindacati). Secondo me, però, la democrazia rappresentativa è sempre preferibile a quella diretta, perché se non altro comporta un filtro in più fra un popolo sovrano come il nostro ed i pubblici poteri. Da noi, a mio avviso, non si può fare a meno né dei partiti nè dei Sindacati; e d’altronde non per nulla la nostra Costituzione sancisce il multipartitismo e la libertà sindacale, essendo nata sulle macerie lasciate dal partito unico e dalle “corporazioni” fasciste. Perciò cerchiamo di migliorare partiti e Sindacati, ma teniamoceli cari e non buttiamoli via: in agguato dietro l’angolo può sempre esserci un dittatore.

E veniamo, fra le accennate riforme, a quella elettorale. Esistono due grandi famiglie di sistemi elettorali: proporzionalistici e maggioritari; famiglie “allargate” e che possiedono, ciascuna, parecchi discendenti più o meno legittimi. Quindi i sistemi elettorali sono tanti, ognuno con  pregi e difetti, per cui non si può dire in astratto che uno sia migliore dell’altro, ma solo che uno è più adatto dell’altro alle caratteristiche storiche, sociali, economiche, culturali ecc. del paese in cui va applicato. E le scelte al riguardo, cioè la scelta delle norme elettorali da utilizzare, spettano ai politici, i quali pertanto dovrebbero compierle privilegiando non già gli interessi dei rispettivi partiti, ma quelli generali. Spettano ai politici, dicevo, e quindi non ai costituzionalisti. […]

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